La visione di un mondo nel quale “le cose” siano in gran parte realizzate in modo automatico, e in cui per di più gli uomini siano interessati meno al possesso di “cose” e più all’acquisizione di “esperienze”, fatte in gran parte di natura e cultura, dovrebbe proporre una alternativa rispetto a un mondo segnato negativamente da disuguaglianze e disoccupazione.
Ho letto recentemente alcuni articoli che mi inducono a ritornare sul tema del lavoro, che ho già affrontato su questa rivista (qui, qui e qui).
1. Il primo articolo, di Maurizio Ricci, (“L’età dell’abbondanza”, la Repubblica, 05/05/15, p.26), fornisce una serie di dati che testimoniano l’esistenza di un triplice eccesso di offerta rispetto alla domanda: eccesso di materie prime, di risorse finanziarie, e di lavoro.
Cisterne piene di petrolio, silos traboccanti, con conseguenti crolli dei prezzi. Ma anche grandi quantità di beni di consumo durevole (automobili, frigoriferi, eccetera) fermi sui piazzali o nei magazzini, in attesa di compratori.
“Eppure, scrive Ricci, di lavoratori per trasformare tutte quelle materie prime ce ne sono fin troppi”. In Europa la disoccupazione è al 12%, su scala mondiale al 6%, per un totale di 200 milioni di persone.
Ma incredibilmente, anche le risorse finanziarie, nonostante gli interventi diretti a renderle liquide e ampiamente disponibili, restano nelle banche, ad aumentare i risparmi. I quali, in mancanza di impieghi reali, vanno ad alimentare il gioco d’azzardo della finanza internazionale.
“Puoi portare il cavallo alla fontana, ma non obbligarlo a bere”, è la frase fatta su una economia stagnante.
Perché non beve? Perché le imprese e la gente sono fortemente indebitate, e sottoposte a una sorta di supplizio di Tantalo: il denaro è a portata di mano, come un albero carico di ciliegie, ma chi lo vorrebbe non può prenderlo, ammesso che chi lo detiene sia disposto a darglielo, correndo il rischio di non riaverlo più.
Il titolo dell’articolo di Ricci è ripreso da quello di un libro di Daniel Alpert, banchiere d’investimenti e autorevole membro di think tank economiche (“The Age of Oversupply”, 2013, Penguin, New York). Da cui Ricci estrae questo passaggio cruciale:
“Il mondo ha attraversato negli ultimi 30 anni una rivoluzione epocale: la globalizzazione ha inserito nel mercato mondiale due miliardi di nuovi lavoratori, mentre il boom dell’informatica faceva esplodere la produttività. Il risultato è una caduta verticale della forza contrattuale dei lavoratori, tradotta in una diminuzione dei salari e del potere d’acquisto”.
Il guaio è che questa situazione non sembra temporanea, anzi tende a diventare cronica. Essa conferma la critica che Keynes portò alla teoria economica classica secondo la quale i mercati si regolano da sé, trovando alla fine il punto di equilibrio tra domanda e offerta. Keynes dimostrò che, invece, i mercati possono raggiungere situazioni di equilibrio stabile, pur lasciando a casa milioni di lavoratori.
2. Giampaolo Visetti, corrispondente da Pechino, lancia un “annuncio epocale: la Cina sta ultimando la prima fabbrica al mondo ‘operaio-zero’” (la Repubblica, 08/05/15, p. 40). “La Schenzhen Everwin Precision Technology Company si appresta a licenziare 1600 dipendenti su 1800. I robot sostituiranno il 90% degli operai. Si salveranno, per ora, 200 tra programmatori, addetti ai software e manager”. L’operazione non è isolata, fa parte di una “politica industriale” della regione del Guangdong, con l’obiettivo di tagliare 30 mila posti di lavoro. Perché? Perché il boom economico cinese ha spinto in alto i salari, rendendo meno competitive le imprese cinesi, comprese quelle a capitale straniero, molte delle quali tendono a riportare in madre patria le produzioni.
Insomma: Il robot è più produttivo dell’uomo e costa meno, alla Schenzhen Everwin Precision Tech del Guangdong come alla Volkswagen in Germania.
3. Un terzo articolo, comparso sull’Harvard Business Review di marzo, recensisce alcuni libri che trattano il rapporto tra progresso tecnologico e apprendimento (learning) ai fini dell’occupazione. Risulta che nel passato, se nel breve termine il progresso tecnologico ha distrutto il lavoro, nel lungo termine produttività e salari dei lavoratori ne hanno tratto vantaggio. E questo grazie al “learning by doing”, imparare facendo. Ma, come diceva Keynes, nel lungo termine siamo tutti morti. Allora il Premio Nobel Stiglitz, insieme a B.C. Greenwald, propone una “learning society” (Creating a Learning Society, Columbia University Press, 2014) trainata dall’intervento pubblico, giacché il mercato non è in grado di realizzarla con i tempi e modi necessari.
Ma tutti questi discorsi lasciano sostanzialmente aperti i due problemi fondamentali:
1. Saranno sufficienti, il mercato o l’intervento pubblico, dopo la rivoluzione digitale, ad assorbire tutti i lavoratori, più o meno istruiti, sostituiti dai robot?
2. Come assicurare ai lavoratori retribuzioni adeguate ad assicurare loro e alle loro famiglie un benessere che non dovrebbe diminuire, ma al contrario crescere, senza sottoporli a livelli crescenti di sfruttamento?
Quanto al primo quesito, è molto probabile che la rivoluzione digitale e i problemi ambientali non consentiranno di recuperare i lavoratori dipendenti espulsi dal progresso tecnologico. occupandoli in altre attività create da nuovi bisogni, con gli stessi modi di produzione e il consumismo del passato. E’ prevedibile una casistica estremamente variegata, il cui ventaglio andrà da coloro, dotati di competenze e capacità superiori, che resteranno a condurre grandi imprese altamente automatizzate, a coloro che si metteranno in proprio con successo, che creeranno piccole imprese, a coloro che resteranno disoccupati cronici, con diverse gradazioni intermedie (forme cooperativo-solidaristiche, profit o non profit, lavoro parziale insufficiente ad un adeguato tenore di vita, attività non retribuite o non conteggiate dalle statistiche ufficiali, ritorno all’agricoltura, “arte di arrangiarsi”). A questo proposito, mi sembra che sarebbe opportuno indagare di più su cosa fanno già ora i non occupati, disoccupati e sotto-occupati, compresi i cosiddetti NEET (not in employment, education, training)), giacché non credo che per lo più stiano proprio con le mani in mano!
L’espulsione dal lavoro dipendente tradizionale determinerà comunque profondi cambiamenti, con le relative sofferenze, ma anche con l’emersione di capacità prima latenti.
La risposta al secondo quesito dovrà tener conto dei tempi più o meno lunghi in cui si verificherà il cambiamento dei processi produttivi: sicuramente la sostituzione progressiva dell’uomo da parte delle macchine si tradurrà in una pressione formidabile sulle retribuzioni e sugli orari di lavoro, riportando in auge la cosiddetta “legge bronzea dei salari”, secondo cui il salario e gli orari di lavoro tenderanno al livello minimo necessario per assicurare la sopravvivenza del lavoratore.
E’ impossibile immaginare quanto, del lavoro dipendente venuto a mancare, potrà essere sostituito dalle nuove forme di lavoro autonomo. Del resto, anche questo sarà coinvolto, questa volta in senso positivo, dalle innovazioni tecnologiche. Si parla di “Internet delle cose”, cioè della possibilità, anche per una singola persona, di realizzare prodotti direttamente dai computer, tramite stampanti 3D che usano materiali “additivi” (liquidi, polveri). E’ per ora una attività d’avanguardia, ma in grande crescita.
Anche in relazione a queste tecnologie avveniristiche si parla di un “futuro artigiano”, un ricorso su dimensioni più sofisticate dei modi di produzione diffusa precedenti quelli concentrazionari della rivoluzione industriale.
Si può immaginare una evoluzione dei distretti industriali in imprese a rete e reti d’imprese favorite dalla riduzione dei costi di transazione consentita dalla telematica. Sarà sempre più possibile e praticato il lavoro a distanza, e sarà possibile creare imprese anche nei luoghi più remoti della terra. Si potranno diffondere nuovi modi di produzione polisettoriali, il cosiddetto coworking, grazie al quale competenze diverse poste in stretto contatto tra loro si integreranno generando innovazione, nuovi prodotti e servizi, nuove imprese. La personalizzazione dei prodotti e dei servizi potrà essere spinta a dimensioni impensabili ai tempi delle produzioni in serie.
Ma saranno sufficienti questi nuovi modi di produzione ad occupare tutte le persone espulse dai processi produttivi tradizionali? E’ difficile dirlo, probabilmente no. E’ anche necessario, infatti, riflettere sugli aspetti antropologici. E’ noto che l’imprenditorialità è stata spesso descritta come una devianza, una propensione al rischio come eccezione al comune desiderio di sicurezza. E’ improbabile che gran parte delle persone espulse dai processi produttivi, in particolare quelle prima impegnate in attività esecutive e ripetitive, siano in grado di avviare attività imprenditoriali. E’ tuttavia probabile che molti, spinti dalla necessità, imparino l’arte di arrangiarsi, di fare qualcosa per se e per gli altri, senza giungere a livelli produttivi tali da assicurarsi uno stato di benessere. D’altra parte, anche chi conserverà un lavoro dipendente, nonché gran parte di coloro che svolgeranno un lavoro autonomo, con l’eccezione di coloro che saranno dotati di competenze esclusive o superiori difficilmente reperibili sul mercato del lavoro, saranno privi della forza contrattuale necessaria per assicurarsi un benessere non di pura sopravvivenza. In mancanza di interventi pubblici, a tutti i livelli - globale, regionale, locale -. la prospettiva di una crescita delle disuguaglianze, della disoccupazione, della povertà, fino a livelli dirompenti, è difficilmente contestabile.
Per bloccare e correggere l’aumento delle disuguaglianze sono state formulate diverse proposte. Tra queste, le più note sono la tassazione delle operazioni finanziarie, proposta dal premio Nobel Janes Tobin nel 1972, e quella recente di Piketty (2014), di una tassazione sui patrimoni. L’obiettivo principale della prima è quello di penalizzare le speculazioni a breve termine, procurando risorse per obiettivi di interesse globale. L’obiettivo principale della seconda è di creare risorse pubbliche da destinare a trasferimenti a favore dei meno abbienti, riducendo le disuguaglianze, Quanto alla learning society proposta da Stiglitz, più che agire contro le disuguaglianze, sembra puntare a conciliare l’aumento di produttività con i livelli di occupazione, ma in una improbabile ripetizione del passato, sia pure su livelli di innovazione tecnologica e di competenze professionali sempre più spinti.
In questo quadro, una possibile azione sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (salari minimi) e sugli orari di lavoro, che io ho immaginato nei miei precedenti articoli, sembra non essere presa in considerazione. Eppure, la visione di un mondo nel quale “le cose” siano in gran parte realizzate in modo automatico, e in cui per di più gli uomini siano interessati meno al possesso di “cose” e più all’acquisizione di “esperienze”, fatte in gran parte di natura e cultura, dovrebbe proporre una alternativa rispetto a un mondo segnato negativamente da disuguaglianze e disoccupazione. Si dovrebbe puntare su un mondo nel quale il lavoro esecutivo occupi meno ore della giornata, pur consentendo una vita magari frugale (nel management è oggi di moda un termine simile, di lingua indiana, forse derivato dal sanscrito: Jugaad, per intendere una gestione basata sulla semplicità) ma caratterizzata da un maggior benessere e soprattutto da una maggiore libertà.
Credo ancora che per realizzare questa visione sia necessario che le pubbliche istituzioni intervengano sui salari minimi e sulla riduzione degli orari di lavoro, sia pure in modo articolato e tendenziale, a livello non solo locale e nazionale, ma soprattutto di istituzioni come l’ Unione Europea e l’ONU.
L'ONU si è occupata recentemente delle conseguenze degli incidenti stradali, con particolare riguardo ai paesi in via di sviluppo. I problemi del lavoro, della disoccupazione globale, delle retribuzioni calanti, dello sfruttamento, non meriterebbero un’attenzione superiore?