Qualche riflessione a margine del dibattito sulla legge Cirinnà
Quando infuriano le battaglie ideologiche, quando alle proposte di legge che provano ad intervenire sui cambiamenti più profondi della società per accoglierli in nuovi contesti normativi vengono contrapposti muri di “leggi di natura” su cui si agitano spettri odiosi, allora possiamo constatare come ogni mezzo sia ritenuto buono per far arretrare l’avversario: c’è chi ricorre agli insulti beceri, chi ai duelli di parole anglofone più o meno nuove o abusate, chi sbandiera casi estremi e vicende private più o meno esemplari, chi, più raramente, fa ricorso ai capisaldi della grande cultura per tirarne l’acqua al proprio mulino.
Accade così che nella difesa della cosiddetta famiglia naturale o tradizionale come, al contrario, della naturalità e legittimità delle relazioni omoerotiche, vengano tirate in ballo la società dell’antica Grecia e la filosofia platonica: sostenendo, da una parte, che a dipingere i cittadini ateniesi dell’età arcaica e classica come dediti a pratiche pederastiche appassionate, a corteggiamenti di fanciulli pubblicamente esibiti nelle palestre o nei banchetti, siano stati studiosi di parte, spinti dal loro “omosessualismo” (variante più popolare della “teoria gender”?) a giustificare ed elevare attraverso nobili ascendenti e sublimi motivazioni le loro tendenze “contro natura”; dall’altra sostenendo che i Greci erano del tutto alieni da atteggiamenti omofobici, o, per citare Umberto Galimberti, “indifferenti a queste bassezze”.
Il filosofo monzese, affascinante interprete e divulgatore della visione dell’uomo e dell’amore elaborata dagli antichi Greci, è uno degli intellettuali più coinvolti nel dibattito che accompagna la discussione pubblica sulla legge Cirinnà, e come tale è oggetto di violente critiche da parte di certi ultracattolici che contro di lui si scagliano con varie accuse di parzialità e addirittura di ignoranza, pretendendo di negare o minimizzare quanto nella concezione dell’amore e dell’educazione nella Grecia classica ci fosse di incline non solo all’accettazione, ma anche alla celebrazione dell’attrazione omoerotica e dei legami affettivi basati su di essa.
Che l’antica Grecia sia sempre stata il punto di riferimento dell’elaborazione culturale dell’Occidente in tutti i tempi è cosa ben nota, anche se può suonare fastidioso il ricordarlo in tempi di omologazione al ribasso delle conoscenze e dei repertori argomentativi: anche il Medioevo, che la cultura greca la conosceva solo molto parzialmente, e attraverso il filtro dei latini, e che tutto assimilava, trasformava e valutava in termini cristiani, non poteva fare a meno di riferirsi ad essa come fonte di autorità e ispirazione. Nel Novecento è stata la psicanalisi, da Freud a Hillmann, a riportare alla ribalta le grandi figure del mito e della tragedia come archetipi dell’inconscio o dell’anima, come immagini dei nodi più problematici dell’esperienza umana.
I Greci hanno inventato la democrazia, ma ne escludevano le donne e gli stranieri
Va benissimo perciò che anche Omero, Platone o i lirici greci vengano coinvolti nel dibattito, e se questo può indurre a leggerli o rileggerli non può venircene che un decisamente utile arricchimento. Quel che non si può fare è leggerli riducendo e comprimendo la loro complessità attraverso criteri lontanissimi dai loro. I Greci hanno inventato la democrazia, ma ne escludevano le donne e gli stranieri, hanno inventato la storia e la geografia, ovvero lo studio di altri popoli e costumi, ma consideravano “barbaro”, ossia “balbuziente”, chi non parlava il greco; pensavano delle donne tutto il male possibile, ne diffidavano profondamente, ma chi meglio di loro ha saputo rappresentare la bellezza, il dolore, la dignità offesa, la dirittura di coscienza delle donne?
Erano profondamente religiosi, certo (è del tutto inutile ricordare che “non erano laici”, come fanno i polemisti cattolici), ma la loro religione accoglieva tutto il possibile dell’uomo e della natura, senza escludere, senza riunire tutto sotto un’unica Legge. Ecco: per me, quello che avevano i Greci di meraviglioso era proprio questo, l’assenza di fondamentalismo. Che ha permesso loro di produrre tanta bellezza e tanta ricchezza di pensiero.
Tutto nella natura era divino per loro, degno di sacro terrore o di sacra ammirazione; e ogni modo d’essere o esperienza umana aveva un corrispettivo divino. Soprattutto l’amore. Anzi, l’amore ne aveva più di uno: i principali, lo sappiamo tutti, l’aurea Afrodite e suo figlio Eros. Il quale era per loro ben altro che il grazioso puttino alato dei nostri cioccolatini: “dolce-amara, invincibile fiera”, lo chiama Saffo; forza devastante, talora, a cui anche gli dei devono cedere; anche sua madre, che pure è l’unica divinità femminile al cui potere si piegano anche gli immortali.
Queste forze irresistibili (non solo naturali, ma addirittura sovrannaturali) inducono uomini e dei a desiderare oggetti d’amore non distinti per sesso, ma solo per le attrattive esercitate dalla loro bellezza e giovinezza: su questo, a leggere i miti o i lirici greci non può esservi alcun dubbio.
Se è abbastanza nota la natura dell’amore cantato da Saffo, meno noto è il gran numero di versi omoerotici che praticamente tutti i grandi poeti lirici dell’età arcaica, maschi nella quasi totalità, hanno dedicato ai giovinetti da loro amati, corteggiati, celebrati, rimpianti, ammoniti per la loro indifferenza o leggerezza; versi inequivocabili, non meno belli di quelli che cantano il vino o deprecano la vecchiaia, ma che, chissà perché, anche chi ha fatto il liceo classico non sempre conosce. Sarebbe facile rovesciare le accuse di parzialità nella rappresentazione delle inclinazioni amorose dei Greci: non sono stati tanto gli studiosi omosessuali a voler insistere sulla omofilia dei Greci, quanto i custodi della morale familiare ed eterosessuale a volerla elidere, ignorare, nel migliore dei casi minimizzare; permettendosi anche di ricordare, oggi, che Michel Foucault, grande studioso di questo come di altri aspetti dei rapporti tra potere e cultura, è morto di Aids: come se questo ne dovesse inficiare il rigore della ricerca e quindi i risultati!
Come dire che chi nasconde, minimizza, gioca sull’equivoco, è onesto perché lo fa in nome di una morale costituita, mentre chi rivela, sottolinea, mostra, è disonesto perché mosso da un’esigenza di verità sofferta personalmente. Vale per il movimento omosessuale come per quello femminista: la ricerca mossa dai loro intenti “di parte”, quando si attiene alla documentazione storica (o scientifica), non può che meritoriamente arricchire la nostra conoscenza e deve essere accolta con attenzione e gratitudine. Di fronte ad una profusione non solo di versi, ma anche di immagini, dalle sculture alle pitture vascolari, che ne rappresentano una prova inoppugnabile, un atteggiamento laico, o anche semplicemente onesto, non può negare che i creatori della civiltà occidentale praticavano la pederastia: può solo cercare di capire che senso aveva, resistendo al bisogno di giustificarla o riprovarla a priori.
Avendo frequentato il liceo classico, e poi la facoltà di filosofia negli anni a cavallo del fatidico ’68, posso testimoniare di aver appreso di questa realtà storico-culturale non proprio di secondaria importanza solo a metà degli anni ottanta, quando le edizioni Einaudi hanno tradotto e pubblicato lo studio del grecista inglese Kenneth Dover “L’omosessualità nell’antica Grecia”, uscito per altro a Londra sette anni prima, nel ’78. Prima, avevo appreso che il giovane Cirno di tanti versi di Teognide era genericamente (e forse lo è ancora oggi in molti licei) “un giovane amato dal poeta”: che problema c’è? I poeti, si sa, amano i giovani. Senza conoscere altri testi di fatto censurati, quei versi si potevano facilmente leggere senza alcun sospetto. E invece Dover mostra con grande scrupolo scientifico e dovizia di documentazione come i ragazzi che frequentavano le palestre della Grecia classica fossero “i pin-up dell’epoca”! Un fenomeno diffuso, insomma, non certo limitato a pochi circoli intellettuali.
Anche Platone li cita esplicitamente come esempi di quello speciale tipo di amore tra l’erastés, l’amante, colui che ama, e l’eròmenos, l’amato
Già prima, in verità, qualche malizioso avanzava dubbi sul legame tra Achille e Patroclo, ma ancora oggi, e anche con pretese scientifiche, si tende a definirlo come una semplice amicizia virile, normale tra gente che rischiava la vita sul campo di battaglia. Eppure anche Platone li cita esplicitamente come esempi di quello speciale tipo di amore tra l’erastés, l’amante, colui che ama, e l’eròmenos, l’amato: Achille è premiato dagli Dei, che lo mandano nell’isola dei beati, perché lui, più bello “non solo di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi”, lui più giovane e “tuttora imberbe”, pur sapendo di dover affrontare per questo la morte preannunciatagli, accetta di tornare a combattere per vendicare il suo amante. E questo è per Platone davvero ammirevole, perché è più facile che sia l’amante a sacrificarsi per l’amato, dal momento che “è pieno del dio”: di Eros, intende, e della “follia” che egli ispira negli amanti.
Può darsi (ma molti, come Eva Cantarella, attenendosi al testo dell’Iliade, non sono di tale parere) che questa sia una interpretazione di Omero filtrata dalla sensibilità più “moderna” di un ateniese del V secolo quale era Platone; però quel che egli dice nel passo sopra citato del Simposio è utile per definire il carattere della pederastia nella Grecia classica. Di questo amore speciale, di innegabile natura sessuale ma dotato di un valore approvato e riconosciuto socialmente, tanto da richiedere un preciso galateo, una ritualità e una attenta difesa dai rischi di degenerazione, una caratteristica è l’asimmetria anagrafica, che tuttavia aveva implicazioni diverse da quelle che potrebbe avere per noi: un uomo maturo si innamora di un adolescente, di condizione libera come lui, ancora imberbe ma già in grado di combattere, di avere delle schiave come concubine (vedi la Briseide sottratta ad Achille da Agamennone), di decidere della propria vita e della propria morte, e, in forza di questo amore, se ne fa mentore ed educatore, sostituendosi al padre nel compito di avviarlo ad assumere la sua futura posizione di cittadino, nonché di amante e marito e padre.
Un’altra caratteristica di questo genere di relazione è infatti, per gli amati, la temporaneità, la sua limitazione a quella stagione della vita in cui la bellezza maschile e quella femminile erano, per i Greci, ugualmente attraenti: senza che questo significasse sentirsi o essere definiti come “diversi”, appartenenti ad una speciale categoria, non trattandosi di un orientamento sessuale stabile o esclusivo. Qualcuno preferiva magari l’una bellezza all’altra, ma non c’erano steccati morali ad impedirne o incoraggiarne il desiderio: anche gli Dei amavano indifferentemente fanciulli e fanciulle. E molti miti, debitamente rappresentati nell’arte, ce lo ricordano.
Forse proprio il carattere tanto effimero di questa bellezza, soprattutto di quella efebica, la rendeva per i Greci così desiderabile
Forse proprio il carattere tanto effimero di questa bellezza, soprattutto di quella efebica, la rendeva per i Greci così desiderabile: non pensavano certo come i divi di oggi e i loro imitatori che si potesse prolungare oltre i limiti imposti dalla natura il fiore della giovinezza! In questo sì che obbedivano alle leggi di natura… Che si cercassero i favori dei ragazzi con versi d’amore, con doni codificati dal galateo, evitando ogni sospetto di abuso o mercificazione, o che ci si sforzasse, come raccomandava Platone per bocca di Socrate, di farsi indurre dall’amore a guardare attraverso la bellezza dell’amato al fine più alto dell’elevazione dell’anima al Bene, sempre si mirava alla gratitudine dell’amato e ad essere ricambiati con una affezione e devozione che prescindeva, peril più giovane, dal piacere fisico: che l’amato non doveva granchè provare o mostrare di provare (un po’, dice Dover, come le spose vittoriane…). Chissà!
Quel che è certo è che una pratica tanto diffusa e anzi celebrata nell’arte e nella poesia ha trovato forse qualche illustre e segreto seguace nel Rinascimento italiano o nell’Ottocento inglese, ma oggi è temuta ed esecrata: ben a ragione, essendo decisamente cambiati i parametri della maturità e le condizioni dell’educazione e della formazione! Il motivo per cui trovo che non si possa negare, ignorare o minimizzare questo aspetto della storia della civiltà è che dalla sua conoscenza si può imparare che la considerazione sociale della sessualità e dell’educazione non si fonda su pretese leggi di natura. Perché anche la percezione di queste cambia in relazione alle esigenze della società.
È vero che i Greci disapprovavano il fatto che da adulti si assumesse un ruolo passivo nelle relazioni tra maschi, un ruolo femminile che solo nell’adolescenza era consentito, e a precise condizioni, come parte di un percorso di formazione. In verità alcune volte il legame affettivo stabilitosi tra erastés ed eròmenos proseguiva in una relazione stabile e duratura, senza che questo desse luogo a particolare scandalo, anzi anche la filosofia ammetteva che vi fossero inclinazioni diverse. Il famoso mito degli esseri umani tagliati in due dagli dei e perciò condannati a desiderare di riunirsi alla propria metà non è un mito adatto agli innamoratini di Peynet, perché parlava di tre tipologie di uomini interi: quelli fatti da due parti maschili, quelli composti da due parti femminili e, tertium datur, quelli bisessuati; e a voler essere pignoli, sono i primi a provare il desiderio più intenso nella ricerca della propria metà perduta!
Assolutamente disapprovata e sanzionata con la perdita della cittadinanza era invece la prostituzione maschile
Certo, assolutamente disapprovata e sanzionata con la perdita della cittadinanza era invece la prostituzione maschile, e sbeffeggiati da Aristofane, indicati con epiteti irripetibili, erano poi coloro che apertamente esibivano modi effeminati e preferenze per la passività sessuale. Ma questo aveva a che fare più con la dignità di un libero cittadino (maschio, abbiamo già detto che le donne non godevano della cittadinanza) e con la già citata inferiorità sociale delle donne che con le leggi di natura.
Qualche studioso anzi asserisce l’esistenza di un legame tra l’istituzione della pederastia e la segregazione delle donne negli spazi della vita domestica: dei giovinetti si poteva apprezzare la bellezza nelle strade e nei ginnasi, si poteva invitarli ai banchetti, si poteva corteggiarli senza che questo sminuisse la loro dignità né quella dei loro ammiratori. In pubblico potevano mostrarsi nel loro fulgore solo le etere, flautiste, danzatrici, e le prostitute, che non andavano corteggiate perché le loro prestazioni o la loro compagnia si pagavano. Insomma, se le donne oneste non potevano uscir di casa, se il matrimonio era spesso combinato dalle famiglie, a chi poteva indirizzarsi un amore che fosse desiderio di essere accolti per i propri doni, per le proprie doti di eccellenza, per le proprie capacità di seduzione?
Se oggi da più parti desta scandalo l’idea che si possa ridurre una donna alla sola funzione riproduttiva (quando essa si presti a fare da madre per altri genitori biologici o adottivi), non si può poi ricorrere ai Greci e alla loro idea di matrimonio finalizzato alla riproduzione per sostenere che sono d’accordo con noi! Perché proprio questo era per i Greci una madre: un contenitore, una incubatrice per il seme maschile, il solo ad avere la potenza, la virtù di dar forma alla materia: tanto che su questa base Oreste viene perdonato per aver ucciso la madre allo scopo di vendicare il padre. Cosa ne pensasse lei, la madre, non lo sappiamo. Un po’ come battuta potrei forse dire che ce lo dicono indirettamente le tante loro tragedie..
La civiltà greca ha occupato parecchi secoli, e non si può citare il moralista Plutarco, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo, e le sue idee sul matrimonio, come rappresentative della posizione dei Greci intorno ai temi della famiglia. Se, a differenza dei Romani, i Greci dell’età classica non affidavano alle donne l’educazione dei figli, ma solo il compito di portarli in grembo ed allevarli, se solo qualche pensatore anticonformista come Socrate pensava che potessero istruirsi e assumere compiti di responsabilità pubblica, se Aristofane faceva ridere il suo pubblico agitando populisticamente lo spettro di possibili ribellioni femminili, allora non possiamo, intorno ai temi della famiglia, prendere esempio da nessuno, tanto meno dagli antichi.
Faticosamente, senza perdere la nostra umanità, arricchendola anzi col confronto attento e libero da divieti e pregiudizi, dobbiamo cercare la strada per definire i nostri confini tra ciò che può essere legittimo e ciò che non lo è nei campi delicatissimi della bioetica e dell’uguaglianza dei diritti.