La vita e le opere dello scrittore in un articolo di Antonio Caronia
(Da L’Unità, 21 aprile 2009)
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ames G. Ballard è morto il 19 aprile scorso dopo una lunga malattia (un cancro alla prostata), annunciata a tutti i suoi lettori nell’autobiografia I miracoli della vita, uscita in Gran Bretagna nel 2008 (e in Italia all’inizio del 2009). Aveva 78 anni. È stato uno degli scrittori più lucidi e affilati nel Novecento, ne ha scavato le tendenze e le pieghe più segrete. Il suo sguardo ha svelato per noi ciò che avevamo sotto gli occhi e che non sapevamo vedere, ciò che conoscevamo e non sapevamo dire, ciò che ci affascinava e ci respingeva – e non sapevamo perché. Adesso che anche lui è morto, dopo William S. Burroughs, dopo Kurt Vonnegut, dopo Philip K. Dick, possiamo ben dire che il XX secolo è morto, quel secolo dominato dal “matrimonio fra ragione e incubo,” secondo la pacata e terribile definizione che ne diede nel 1974, nella prefazione all’edizione francese di Crash.
Ballard è stato uno di quegli scrittori nei quali i temi dominanti si intrecciano in maniera inestricabile: leggi di tecnologia, e ti accorgi che parla dei mezzi di comunicazione; descrive un paesaggio, ma è un frammento di pelle ingrandito ed esplorato minuziosamente; parla di elicotteri, di vecchi bunker in disuso e di cavalcavia, e sono paesaggi della mente. “Icone neuroniche sulle autostrade spinali”. Non è tanto il fatto che niente sia come sembri – tutti i grandi scrittori sanno bene come far emergere da una scena apparentemente semplice significati nascosti. No, è proprio che l’interno e l’esterno in lui si rovesciano come un guanto, e lo fanno con una naturalezza sconcertante e a volte – per molti lettori – irritante. Certo, l’ispirazione è molto vicina a quella di Burroughs, ma la scrittura è completamente diversa, opposta. “In fondo sono solo un narratore tradizionale con un’immaginazione fervida,” ha scritto in I miracoli della vita, dimenticandosi di avere scritto uno dei testi di narrativa sperimentale più intricati nel Novecento, La mostra delle atrocità. Però dobbiamo riconoscere che aveva ragione. Dal punto di vista stilistico, La mostra è un’eccezione nell’insieme della sua opera. Anche il romanzo che tematicamente è più vicino a quel testo, Crash, ha una scrittura eccezionalmente piana e distesa, come gli altri suoi romanzi. Nulla del barocchismo, di Burroughs, o del concitato stile di Dick. Lo scrittore a cui assomigliava di più, in fondo, rimane Vonnegut, per la tagliente ironia e quel paradossale understatement con cui sono esposti i paradossi più ostici e le verità più sgradevoli.
Nato a Shanghai nel 1930, il giovane Jim Ballard trascorse in quella città un’infanzia e un’adolescenza agiate, inglese di lingua e britannico di cultura, ma in una versione coloniale. Il suo immaginario si nutrì di quella metropoli cinese, città mediatica ante litteram, che, scrive in I miracoli della vita, “mi faceva l’impressione di un posto magico, di una fantasia che si generava da sola e che la mia piccola mente non riusciva mai ad afferrare.” Dopo l’invasione giapponese del 1941, quel mondo crudele ma fatato svanì e venne sostituito dal campo di concentramento giapponese di Lunghua, dove Jim rimase sino all’agosto 1945. Quegli anni completarono l’apprendistato del giovane Ballard, insegnandogli la prossimità della vita e della morte ma al tempo stesso, paradossalmente, dandogli una libertà che la vita in famiglia a Shanghai non gli avrebbe mai dato. Quando Ballard arriva in Inghilterra nel 1946, il paese gli appare straniero: conosce la lingua, e gli elementi base della cultura, ma combinati in in modo che non conosce, applicati a un contesto completamente diverso. Questo straniamento è la radice del suo sguardo così diverso, così acuto, così penetrante, sulla società e la psiche dell’uomo occidentale. James Ballard non può essere né un medico né un pilota né un pubblicitario, anche se studia medicina per due anni, per un anno lavora nella RAF in Canada e per un altro anno nella pubblicità. Può essere soltanto uno scrittore. Si sposa nel 1955, lavora per un po’ come redattore di una rivista scientifica poi, sostenuto dalla moglie Mary e totalmente avversato dai genitori, decide di intraprendere la carriera di scrittore a tempo pieno. Dopo i primi racconti pubblicati in Inghilterra, il primo libro che lo fa conoscere davvero è il romanzo Il mondo sommerso, del 1962. Negli anni cinquanta e sessanta Ballard scrive una fantascienza personalissima e misconosciuta, la fantascienza dello “spazio interiore”, in cui la tecnologia si incide letteralmente nel sistema nervoso degli esseri umani e la malattia diventa una condizione fatata e sospesa che cristallizza il tempo. Poi Ballard incontra i quadri e le poesie dei surrealisti e la nascente pop art inglese. Con La mostra delle atrocità (1969) gli elementi dell’immaginario ballardiano sono finalmente riuniti: tecnologia, disturbo mentale e media si intersecano per produrre il più fantastico ritratto degli anni sessanta. La guerra è finalmente finita, e l’uomo può dedicarsi a coltivare i propri piaceri più perversi. Con L’impero del sole (1984), che ricostruisce in modo romanzesco l’esperienza di Lunghua, arriva il vero successo commerciale. La fantascienza è esaurita, e negli ultimi anni, con Cocaine Nights e Super-Cannes, le perversioni della psiche occidentale sono indagate con la lente di personalissime crime stories. E in ultimo, per nostra fortuna, Ballard fa in tempo a pubblicare, un anno prima di morire, la sua autobiografia. In cui coloro che lo hanno amato e quelli che si avvicinano per la prima volta a lui possono ricostruire la genesi del suo immaginario e del suo straordinario sguardo sull’uomo.
Ballard e il cinema
Trasporre al cinema l’immaginario di Ballard è impresa insieme semplice e ardua. Ci hanno provato solo due registi, diversissimi e perciò con esiti quasi opposti. Anche se, in entrambi i casi, la fedeltà al libro è stata notevole.
Steven Spielberg ha realizzato nel 1987 L’impero del sole, il che, com’è ovvio, ha astronomicamente aumentato la popolarità di Ballard. La lettura di Spielberg non nasconde nessuna delle durezze del libro – neppure nelle scene di vita del campo – ma, com’era facile aspettarsi, enfatizza l’aspetto dello sguardo incantato del giovane Jim sul mondo. Esemplare la scena in cui il protagonista (un Christian Bale quasi perfetto) correndo sulla terrazza della pagoda segue i bombardieri americani che volano quasi raso terra, opportunamente montati al ralenti. Da ricordare anche l’ottima interpretazione di John Malcovich nella parte dell’americano Basie. Ballard si è sempre dichiarato molto soddisfatto del lavoro di Spielberg. Non così alcuni suoi fan.
David Cronenberg è molto più in sintonia di Spielberg con l’immaginario ballardiano, soprattutto con il suo cotè più oscuro. Il suo Crash (1996), forse meno fedele dal punto di vista della trama di L’impero del sole (il personaggio di Gabrielle, per esempio, magistralmente interpretata da Rosanna Arquette, ha molto più spazio nel film che nel romanzo) traduce però molto più precisamente in immagini l’atmosfera del libro. Anche un attore non eccelso come James Spader (nella parte di Ballard) qui dà buona prova di sé, come Holly Hunter (che è Catherine) e Deborah Unger (Catherine Ballard). Ma Elias Koteas nella parte di Vaughan è semplicemente strepitoso. Il film ha avuto grande successo in Europa e soprattutto in Francia (meno in Italia), ma ha diviso ferocemente il pubblico. Le scene di sesso, in effetti, sono molto crude, nella più pura tradizione cronenberghiana. Alcuni gruppi femministi, soprattutto, si sono prodotti in aspre critiche e contestazioni. In Gran Bretagna, come ricorda Ballard nell’autobiografia, ne è addirittura stata chiesta la messa al bando (per fortuna, senza effetti).
L’eredità letteraria di Ballard
Si stanno chiedendo in molti se Ballard lasci qualche erede letterario: se fra i nuovi autori vi sia qualcuno capace di continuare in qualche modo il suo lavoro. Se vogliamo ascoltare Ballard in persona, in I miracoli della vita vengono fatti due nomi, quelli di Ian Sinclair e Will Self, con i quali l’autore aveva avviato negli ultimi anni una frequentazione. Senza disconoscere l’indicazione di Ballard (e anzi riconoscendo una qualche parentela fra questi due autori inglesi e lui), si potrebbe però anche dire che Ballard è stato il precursore di quella che oggi viene chiamata “letteratura post-coloniale” in lingua inglese. Autori come Salman Rushdie, V.S. Naipaul e altri più giovani (come Kenzaburo Oe) scrivono in una lingua – l’inglese – che conoscono benissimo ma che non è la loro lingua madre, sono inseriti nell’immaginario occidentale ma lo vedono da un punto di vista diverso, non completamente interno, molto angolato. Quest’ultima caratteristica, in fondo, è comune anche a Ballard, che è stato il primo scrittore inglese del Novecento a guardare l’Occidente con occhi estranei. Forse per questo alcuni critici avevano pensato, sin dai suoi esordi, a una influenza di Conrad, che invece Ballard lesse più tardi. Se proprio volessimo indicarne uno, l’unico erede di Ballard è stato forse il primo Rushdie (soprattutto I figli della mezzanotte). Ma forse, invece, nessun grande autore lascia mai davvero degli eredi.