Nei romanzi di Jorge Amado, una riflessione ancora attuale sui costi umani ed ambientali della produzione di beni alimentari
Per proseguire nel percorso letterario dedicato alla dimensione etica dell’alimentazione, proponiamo la rilettura dei tre romanzi in cui lo scrittore brasiliano Jorge Amado ha raccontato, negli anni dal 1932 al 1944, l’epopea della produzione di cacao nella sua terra: Cacau, breve romanzo giovanile, il più noto e amato per l’immediatezza con cui rappresenta la vita dei lavoratori delle grandi piantagioni; Terras do sem fin, ovvero Terre del finimondo, pubblicato nel 1942, che racconta la conquista delle terre sottratte alla foresta vergine per destinarle alla produzione di cacao e São Jorge dos Ilhèus, che chiude la trilogia, tradotto in italiano con due diverse versioni, nel 1984 da Luigi Panarese col titolo Frutti d’oro, e quindici anni dopo, ad opera di Daniela Ferioli, col titolo I padroni della terra. Titoli entrambi che alludono, nel loro doppio senso, non solo al colore dei frutti del cacao e alla realtà dei proprietari terrieri, ma anche alle iperboliche dimensioni del valore economico attribuito a quei frutti e all’altrettanto iperbolica arroganza di quei proprietari, che si comportavano come padroni della Terra, più che di qualche porzione coltivabile della stessa.
Epopea tragica e sanguinosa, quella del cacao, vera guerra spietata e senza scrupoli dei grandi fazendeiros, tra loro e contro i piccoli proprietari , per l’accaparramento e l’estensione delle terre più fertili da dedicare a quella che all’inizio del ‘900 appariva come la più redditizia delle coltivazioni che si potessero impiantare in Brasile. Guerra, in primo luogo, contro la grande e ancora misteriosa foresta vergine, il cui suolo doveva essere denudato e ridotto a piantagione, sgombrato, per essere assoggettato alla coltivazione, dalla ridondante varietà di viventi d’ogni specie, che ancora terrorizzavano gli spiriti più semplici con la loro incombente presenza. Guerra di astuzie e ribalderie di avvocati, poi, di soprusi e colpi bassi d’ogni genere non solo tra i coroneis (colonnelli: altra, più che appropriata, denominazione locale dei proprietari terrieri), ma soprattutto tra questi e i grandi esportatori, europei o statunitensi, che stabilendo il prezzo del cacao e giocando spregiudicatamente con artificiosi rialzi destinati inevitabilmente a crollare, finivano per appropriarsi delle fazende di chi, ubriacato dall’improvvisa ricchezza, si indebitava senza risparmio proprio con loro.
E’ a questa forma di speculazione raccontata da Amado che ho pensato nel leggere recentissime “previsioni” sul futuro, inevitabile rialzo del prezzo del cacao: a lungo termine, per un eccesso di domanda che ne renderebbe del tutto insufficiente la produzione mondiale, (prospettiva di esaurimento delle risorse che in verità riguarda tutti i beni che il pianeta ci ha finora garantito), oppure a brevissimo termine, a causa dell’epidemia di Ebola nei paesi africani che oggi sono fra i maggiori produttori dei “frutti d’oro”. Insomma, rialzo ha da essere e di certo rialzo sarà.. Lo sappiamo, seppure approssimativamente, un po’ tutti, ma non ci pensiamo quasi mai: anche i prodotti alimentari, quelli commerciabili su vasta scala, sono per la finanza internazionale semplicemente delle commodities, dei beni il cui prezzo viene stabilito dal mercato: in relazione alla legge della domanda e dell’offerta, ci si dice, mentre, palesemente, la dinamica dei futures è dominata dalle manovre speculative dei grandi investitori. Che indirettamente decidono, perciò, di quali alimenti potremo godere in futuro tutti noi comuni mortali e di quali dovremo fare a meno a causa dei costi proibitivi. Questo vale in particolare per quei beni che un tempo si definivano significativamente “coloniali”, quelli provenienti dai paesi tropicali, il cui valore economico è incrementato dai gusti e dalle mode dei consumatori europei e nordamericani, oltre che dalle peculiarità climatiche necessarie alla loro coltivazione: spezie, caffè, cacao, per l’appunto.
E’ soprattutto a quest’ultimo, fin dalla sua affermazione sotto forma di cioccolatte come bevanda alla moda nel secolo dei Lumi,che la letteratura ha tributato sia l’esaltazione del piacere che esso elargisce al corpo e allo spirito sia la condanna dei costi umani che la sua produzione ha comportato: impossibile elencare tutti i versi o le pagine di romanzi , e infine i film, che hanno celebrato il cioccolato (o la cioccolata) in tutte le sue forme e per i mille motivi che ce lo rendono desiderabile, ma altrettanto impossibile dimenticare la sdegnata e feroce ironia di Giuseppe Parini nell’ammettere di fronte al «giovin signore», impegnato a scegliere per la sua colazione tra il caffè e il cioccolatte, quanto giusto sia stato che i conquistadores non abbiano considerato umano il sangue che scorreva oltre Oceano e che abbiano spietatamente distrutto antichi e nobili regni poiché nuove così venner delizie,/o gemma degli eroi, al tuo palato.
Lo chiamavanoil brodo indiano, per la sua provenienza dalle Indie Occidentali, come ci racconta Piero Camporesi nel suo delizioso saggio su edonismo ed esotismo nel Settecento, e sull’onda di quella nuova delizia si costruirono nuove fortune economiche e politiche per i secoli successivi.
Nel Novecento, a denunciare il pesantissimo costo umano ed ambientale della produzione e della esportazione del cacao è stato uno scrittore come Amado, che è ben lontano dall’intransigente moralismo dell’abate Parini, uno scrittore noto anzi per la sensualità e la insopprimibile vitalità dei suoi personaggi. Un romanziere, però, che conosceva bene per esperienza il mondo del cacao: suo padre era stato il piccolo proprietario di una piantagione a Itabuna, e, dopo la rovina delle sua fazenda, aveva lavorato come bracciante presso altri proprietari.
«Ho cercato di raccontare in questo libro, con un minimo di letteratura e un massimo di onestà, la vita dei braccianti nelle fazendas di cacao del sud di Bahia. Che sia un romanzo proletario?».
Così dichiara Amado nella nota introduttiva a Cacao: l’esperienza di quel mondo e la formazione intellettuale a Ipanema e a Rio lo avevano spinto ad aderire al Partito Comunista, e a militare generosamente nelle sue file tanto da subire ripetutamente l’esilio; la sua scrittura, però, non ha nulla di ideologico, non nasce da astratti furori, ma da un profondo senso di giustizia e di solidarietà umana, di comprensione delle dinamiche economiche e di quelle sociali a partire dalla disincantata conoscenza delle passioni più profonde che muovono l’agire umano, dall’amore più tenero e innocente alla crudeltà e all’avidità più spietate.
La vicinanza di Amado al mondo dei diseredati il cui destino è legato al cacao è palese in ogni passo dei suoi romanzi, anche quando la rappresentazione si fa più complessa, ma è soprattutto in Cacao che emerge, fin dalla narrazione in prima persona: grazie ad essa, lo scrittore si fa bracciante tra i braccianti, protagonista e testimone della vita di una piantagione dall’ironico nome di Fazenda Fraternità. Una vita dominata dal ciclo di una complessa monocultura (dissodamento della terra e piantagione, crescita degli alberi, raccolta, fermentazione e essiccazione dei frutti, sgranatura dei semi, ammasso..), le cui fatiche arricchiscono col loro risultato pochi e deliziano molti. Ma fra questi non vi sono certo i braccianti, che del cioccolato conoscono solo il profumo, e sulla pelle portano l’incrostazione ineliminabile lasciata dalla polpa appiccicosa che avvolge i semi.
«Mangiavamo il pezzo di carne secca e i fagioli cotti fin dal mattino, e la bottiglia di cachaça passava di mano in mano… Jaca e banane i nostri unici e invariabili dolci. Non ne conoscevamo altri.» .
Frutto gigantesco e dolcissimo, la jaca, che cresce pressocchè spontaneo in Brasile. Il mito dell’abbondanza che regnava nelle terre del cacao spingeva i poveri delle terre più aride del paese ad emigrare verso le ricche fazende dello stato di Bahia, dove sarebbero diventati degli “affittati”, costretti ad una realtà di fatiche e di miseria; alcuni pensavano di rimanere solo finchè la siccità non fosse finita, ma la fazenda era un mondo totalizzante, dove i già miseri guadagni venivano decurtati da multe spropositate, dilapidati con le prostitute o spesi per le necessità quotidiane nello spaccio interno di proprietà del coronel. Alcuni dei protagonisti di Terre del finimondo sognavano solo di poter fuggire da quella vita, ma erano irrimediabilmente indebitati coi loro padroni, lasciare la fazenda li avrebbe resi dei fuorilegge. Altri, ritenevano comunque ancor peggio tornare nei paesi della siccità abbandonando le fazende: « lì per lo meno i figli mangiavano. Di jaca ce n’era in abbondanza».
Di fatto era quello l’unico nutrimento dei figli dei braccianti, bambini che già all’età di cinque anni lavoravano anche loro ad ammassare semi: «Povere creature gialle, che correvano tra l’oro delle piantagioni di cacao, vestite di stracci. … Scuola, una parola senza senso per loro». Vivevano nella sporcizia e nella promiscuità; battezzati tutti insieme in una cerimonia annuale, trenta, quaranta per volta, «come una mandria di buoi alla marchiatura», con lafiglia del coronel a fare da madrina, «avevano una vaga idea di Dio, un individuo simile al coronel, che premiava i ricchi e puniva i poveri.»Come i loro genitori, «neanche i ragazzini si avvicinavano ai frutti di cacao. Temevano quel cacao giallo, dai semi dolci, che li faceva prigionieri di quella vita di carne secca e jaca. Il cacao era il grande signore, di cui perfino il coronel aveva paura».
Nella loro sconfinata avidità, anche i colonnelli sono schiavi della brama di accumulare sempre più terre da coltivare a cacao, contendendosi con ogni mezzo non solo le terre vergini, ma anche quelle dei piccoli coltivatori: avvocati, notai e soprattutto jagunços, sgherri armati, nonché interi partiti politici vengono arruolati a sostegno di questo brutale, primitivo espansionismo delle piantagioni. E la corruzione penetra massicciamente nel paese al seguito della violenza, ma anche dell’arricchimento spropositato ed effimero dovuto alla speculazione.
Un paradigma senza tempo, sebbene incarnato in un mondo particolare e dai contorni realisticamente e storicamente definiti. Certo qualcosa nel racconto che Amado ci propone potrebbe essere considerato inattuale: forse anche la sua denuncia ha contribuito ad attenuare gli aspetti più estremi dell’iniquità legata alla produzione di beni “coloniali”, forse i paesi produttori si sono in parte liberati da un certo tipo di colonialismo, forse l’affermazione del commercio equo e solidale è un fatto che limita lo sfruttamento dei lavoratori dei prodotti tropicali e la miseria della loro condizione. Ma se ancora ci sono terre vergini da conquistare ai nostri consumi, possiamo star certi che nuovi avventurieri, magari con mezzi più sofisticati, con la sovrana “neutralità” del denaro anziché con la violenza, purchè sia possibile trarne profitti, riprenderanno la corsa all’accaparramento delle terre. Anzi, questa corsa è già ripresa: il recente fenomeno del land grabbing, l’acquisto massiccio di terre che sta privatizzando buona parte dell’Africa e d’altre zone del Sud del mondo per assoggettarle alle monoculture anche non alimentari (per produrre biocarburanti, ad esempio), è un nuovo e forse più drammatico capitolo di una vicenda ricorrente nella storia, che vorremmo trovasse un limite nella ragione, se non nella giustizia, mentre in tutti noi cova il timore che questo non accadrà.
Contro questo fenomeno è necessaria una mobilitazione delle coscienze, approfittando magari anche dell’occasione di conoscenza, incontro e riflessione offerta da Expo 2015. Già si levano le proteste e si intraprendono azioni di sensibilizzazione da parte delle Ong impegnate a sostenere i diritti delle popolazioni investite da questa possente macchina di rapina: una spoliazione più impersonale, diretta da istituzioni “rispettabili”, non riferibile a personaggi rudi e violenti come Juca Badarò o il colonnello Horacio delle Terre del Finimondo, ma forse per questo ancor più distruttive per l’ambiente e le comunità che ci vivono.