Intervista allo scrittore. Dalla periferia milanese all’Africa, con uno sguardo attento alle realtà marginali, lontano dai luoghi comuni. «La Brianza è uno dei luoghi più devastati d’Italia: è un incubo paesaggistico. La differenza col paesaggio meridionale è che qui non si vedono i mattoni senza intonaco, i tondini che fuoriescono dal cemento».
Sala strapiena, venerdì scorso, 23 gennaio, alla Cascina di Mattia a Cantù, una piccola folla accorsa, oltre che a gustarsi l’ormai nota bontà dei piatti di questo ristorante agrituristico, ad incontrare lo scrittore milanese Gianni Biondillo, noto agli appassionati del genere come creatore di noir di successo, ma anche autore eclettico di saggi e racconti di vario genere, da Tangenziali e Metropoli per principianti a Per sempre giovane, da Pasolini. Il corpo della città a Strane storie: architetto e docente di architettura, intrigante guida di interessantissime “passeggiate d’autore”, camminatore infaticabile, membro del blog collettivo Nazione Indiana, Gianni Biondillo è decisamente una persona che ha molte cose da raccontare…
La serata conviviale ha permesso al suo pubblico di ascoltarlo nella presentazione del suo libro più recente, L’Africa non esiste, e, in più, di scoprire come le pagine di questo hanno ispirato lo chef Barbara Girardi nella preparazione di una“cena letteraria”, la terza della serie organizzata in collaborazione con Area Libri di Seregno.
Così è stato tra samosa, zighinì, ‘njera e baklava coraggiosamente cucinati in Brianza che Gianni Biondillo ha parlato della “sua” Africa, un pezzo di un immenso continente del quale sappiamo ben poco, e del quale, ci dice, ha voluto conoscere la realtà al di là dei luoghi comuni dell’immaginario coloniale, alla Blixen, o del turista contemporaneo alla Briatore. La sua Africa è quella delle regioni più povere, come il Ciad, o più travagliate da lunghe guerre e sanguinarie dittature, come l’Eritrea o l’Uganda; è quella dell’Etiopia orgogliosamente refrattaria ad ogni colonizzazione o dell’ Egitto leader da sempre della civiltà e della cultura africane. Dopo un primo fortunato invito da parte di una rivista di viaggi, dal 2009 al 2013 l’Autore ha potuto visitare questi paesi a fianco degli operatori di alcune piccole ONG impegnate nell’aiuto alle popolazioni (aiuto tanto più concreto ed efficace, testimonia, quanto più lontano dall’elefantiasi sprecona delle grandi organizzazioni internazionali, chiuse nei loro recinti da ricchi occidentali).
L’Africa di Biondillo è, insomma, quella da cui provengono gli immigrati che popolano le nostre periferie, i suoi vicini di casa, in pratica: perchè, racconta, dopo una vita vissuta a Quarto Oggiaro, quando ha dovuto cambiare residenza la sua scelta è stata la via più multietnica di Milano, la più vitale, via Padova. Vivere a Quarto Oggiaro era vivere in un luogo comune, ci spiega: da lì, nel pregiudizio più diffuso, non poteva venire che degrado e delinquenza. E’ stato, dice, il cozzo tra questo luogo comune e l’esperienza vissuta a spingerlo a raccontare la realtà del quartiere in una serie di romanzi, inventando semmai qualche dettaglio e qualche personaggio che non c’era ma che era plausibile che ci fosse: come il commissariato di polizia di Quarto Oggiaro, che è comparso nella realtà dopo essere stato immaginato dallo scrittore come sede delle inchieste dell’ispettore Ferraro, personaggio più che plausibile, questo poliziotto dalla non facile situazione familiare, cresciuto nello stesso quartiere dove un po’ neghittosamente e con fatica affronta gli intrecci complicati e sfuggenti tra le vicende criminali e le storie umane che gli si svolgono attorno.
Insomma, le cose da chiedere a Biondillo dopo averlo letto ed ascoltato sarebbero davvero tante: comincerò da queste..
Se potessi evitare di scrivere, eviterei. E’ molto più bello leggere! Ma non posso farne a meno
Dici spesso che scrivere è sofferenza, che iniziare un libro ti atterrisce… Ci spieghi come mai?
E’ così: se potessi evitare di scrivere, eviterei. E’ molto più bello leggere! Ma non posso farne a meno, è come un imperativo morale, un impegno di testimonianza: ci sono storie, persone, vite che non vengono raccontate, le storie degli sconfitti, di chi perde. Bisogna che qualcuno lo faccia. Scrivi perché senti la necessità di esprimerti, e scrivere è una forma di apprendimento: impari facendo, capisci man mano quello che volevi dire. Anzi, molto spesso capita che siano i lettori a spiegartelo… Ecco, è anche un bisogno di condividere, di dialogare con gli altri a distanza.
Rispondendo ad una domanda del pubblico a proposito delle tue letture, dicevi l’altra sera che è impossibile scrivere senza leggere instancabilmente, che ti muovi quotidianamente tra la montagna dei libri che vuoi iniziare a leggere e quella dei libri iniziati che si aggiungono continuamente a quelli già letti e da rileggere. Trovo però che tu pratichi costantemente anche un altro genere di lettura, quella del paesaggio, alla quale sembra quasi che tu non riesca a sottrarti.
Certo, anche questa è una forma di lettura. Data la mia formazione, non posso non leggere il paesaggio. E’ uno sfondo inevitabile che si tratta di imparare a leggere, basta saperne interpretare i segni: in questo però siamo ignoranti, come, se ci pensi, lo siamo nella musica. Nel rapporto con il paesaggio, ognuno si porta dietro la sua storia: io sono un animale urbano, sono nato e cresciuto in una periferia cittadina, il mio paesaggio interiore è quello della città con le sue stratificazioni, il suo continuo mutare.
Il mio paesaggio interiore è quello della città con le sue stratificazioni, il suo continuo mutare.
Nei tuoi saggi dedicati alle metropoli e alle periferie, parli anche del dolore connesso al mutamento della città, al non ritrovare più i luoghi a cui è legato il tuo passato, e questo nonostante tu sostenga vivamente la bellezza e la necessità delle trasformazioni. Come concilii questi due aspetti?
E’ questa la partita doppia della vita: attraverso quel dolore è il futuro ciò che possiamo guadagnare! E’ necessario progredire, ma guardando anche al passato. C’è un bellissimo dipinto di Paul Klee che rappresenta bene questa contraddizione: è l’Angelo della storia, un angelo col volto rivolto al passato e i piedi rivolti al futuro; il volto dell’angelo suggerisce un rapporto forte, intenso col passato, perché le testimonianze del passato ci feriscono, ci emozionano, ma dobbiamo procedere: in questo rapporto tra futuro e passato c’è il vivere nel presente.
Siamo una società fossilizzata perché anziana: manifestiamo continuamente il sospetto verso la novità, ci manca il piacere di agire. I i paesi anagraficamente giovani sono più aperti al cambiamento
Si direbbe che al futuro, nonostante la durezza del presente, tu guardi comunque con fiducia. Specialmente il futuro dell’Africa ti sembra aperto a molte possibilità positive. E’ vero?
Ho due figlie, perciò trovo obbligatoria la fiducia verso il futuro. Amo le periferie, amo l’Africa, li considero luoghi vitali perché giovani: lì c’è creatività e turbolenza, sono ambienti dove ti giochi tutto perché sei ragazzo. Dopo, quando cresci, viene a mancarti una certa arroganza che è propria della giovinezza. Io penso che siamo una società fossilizzata perché anziana: manifestiamo continuamente il sospetto verso la novità che è proprio delle persone anziane, ci manca il piacere di agire. Certo, non è così per tutte le persone anziane, ma i paesi anagraficamente giovani sono più aperti al cambiamento, inevitabilmente.
Se è così, cosa rappresenta per te allora, a livello urbano, il centro storico delle città? Ne parli nei tuoi saggi come della “quinta teatrale della rappresentazione di una identità collettiva spesso fittizia”. Cosa intendi?
Il centro è diventato un luogo comune: Milano, ad esempio, è una città ricostruita al sessanta per cento nel suo centro storico, perciò l’identificazione della città non è in realtà con un luogo, ma con la classe dominante che lo abita. Assurdo identificare Milano con la cerchia dei Navigli quando la maggior parte della sua popolazione vive ai margini! La città che si estende al di là dei suoi confini municipali, la città-rete esiste e ingloba continuamente nuovi territori, ma per amore di campanile si rifiuta l’appartenenza alla grande metropoli, di cui la provincia è soltanto un quartiere.
Ma non c’è anche forse il timore di una perdita di identità?
Non la si perde, cambia, diventa una nuova identità! Io, come tanti, sono un milanese con un padre campano e una madre siciliana: è una identità nuova che si aggiunge ad altre.
Hai parlato più di una volta nei tuoi libri dell’Expo 2015, come futuro da immaginare. Adesso che è quasi presente, possiamo dire che ha influito, nel bene e nel male, sul cambiamento della città?
Non c’è in verità alcun rapporto tra il cambiamento della città e l’Expo: i progetti che sono stati realizzati in questi ultimi anni esistevano già. Ero contrario all’idea, decisamente ottocentesca, di una esposizione universale, la trovavo inutile, ma adesso che sta per essere realizzata trovo che si debba adottarla sviluppandone i contenuti, impegnandosi sul tema “nutrire il pianeta”. Ho parlato di Expo in un recente articolo sul numero di Abitare interamente dedicato alla manifestazione: sono andato a vedere lo spettacolo del cantiere, che ho trovato interessante, nonostante alcune cose orrende. Fra queste, soprattutto la gestione , ma non ho dubbi sul fatto che risolvendo di corsa, all’italiana, quel che rimane da fare, si riuscirà a realizzare anche questo.
Il confronto tra I materiali del killer e L’Africa non esiste fa pensare che la tua scrittura ricorra ad una interessante dialettica tra saggio e romanzo. Si può dire che il primo fornisce i materiali per il secondo?
Direi piuttosto che viaggiano insieme, saggio e romanzo. Ci sono talvolta riflessioni, ragionamenti che appesantirebbero una narrazione: così li affido alla saggistica. Il romanzo dev’essere innanzitutto una storia, il saggio ne è, come dire, la parte istruttoria. Tutti i miei romanzi sono in qualche modo legati alle tematiche che sviluppo nei saggi. Ho scritto ad esempio, insieme a Severino Colombo, un Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo le cui tematiche sono poi diventate nel romanzo In nome del padre una storia, molto più cupa e drammatica, in verità, rispetto ai toni spesso umoristici o scherzosi del saggio.
Ecco, un’analoga differenza di toni è evidente anche nel confronto tra il saggio sull’Africa e il romanzo I materiali del killer che racconta una terribile vicenda, sospesa tra Italia e Africa, di vittime e carnefici: aperto al futuro il primo, concentrato su un presente cupo e inesorabile il secondo. Come mai?
Il romanzo è così cupo perché in realtà racconta l’Italia. In Africa ho sentito storie tremende sulla presenza italiana in quello che è il business più redditizio del nostro tempo, quello del traffico di uomini. Ho accolto queste voci nella convinzione che la camorra, la criminalità organizzata in genere vanno dove più copiosamente affluisce il denaro.
La sofferenza per luoghi che conosco e amo nel vederli non solo devastati, ma devastati nell’indifferenza
E’ nello stesso romanzo, infatti, che viene rappresentata, attraverso il viaggio del protagonista verso le terre della camorra, la devastazione del territorio nel nostro meridione. Con rabbia e con dolore, direi…
Inevitabile la sofferenza per luoghi che conosco e amo nel vederli non solo devastati, ma devastati nell’indifferenza. A parole diciamo che è una vergogna, ma di fatto rimaniamo immobili. Il Sud non ha saputo reagire, si accontenta di rispondere con la solita lagna meridionalista, mentre c’è gente che distrugge le più belle scogliere solo per procurarsi l’accesso al mare: robe da ergastolo! Ma i delitti ambientali vengono ignorati in nome del guadagno.
La Brianza è uno dei luoghi più devastati d’Italia: è un incubo paesaggistico. La differenza col paesaggio meridionale è che qui non si vedono i mattoni senza intonaco, i tondini che fuoriescono dal cemento.
E la Brianza? Anche qui la criminalità organizzata devasta il territorio in nome del guadagno…
Già, sembra una scoperta recente, e digerita a fatica, ma a Milano la mafia investe dagli anni ’60. E’ evidente che facciamo affari con la ‘drangheta! La Brianza è uno dei luoghi più devastati d’Italia: è un incubo paesaggistico. La differenza col paesaggio meridionale è che qui non si vedono i mattoni senza intonaco, i tondini che fuoriescono dal cemento. Qui le villette coi nani nel giardino sono tutte ben allineate e curate… A devastare il paesaggio è anche il mito della totale libertà, il “posso fare quello che voglio nel mio terreno”, l’individualismo sfrenato. Che cede però poi improvvisamente al totale uniformarsi alla massa: ognuno fa come vuole nel “suo” giardino, ma poi da lì si parte ogni mattina tutti intruppati sul Viale Zara, fermi in fila con l’automobile come tutti gli altri. Io infatti in macchina non vado!
I personaggi e le storie dei tuoi noir hanno un tale sapore di realtà che mi è accaduto di reagire alle vicende private dell’ispettore Ferraro come a quelle di una persona vera, chiedendomi quale tipo di donna potrebbe essere più adatta a lui, e perfino se ed in che cosa ti assomiglia… Non è quello che mi accade abitualmente!
In effetti, i personaggi femminili sono quelli su cui mi soffermo di più, a cui dedico più attenzione. E sono in genere personaggi più maturi rispetto a Ferraro: forse proprio per questo finiscono per lasciarlo. Ferraro è un cane sciolto, in eterno conflitto con la sua ex moglie, chiuso nella sua ignavia. Anche come padre è riluttante ad assumersi le sue responsabilità: e devo dire che in questo, come in molte altre cose, è decisamente diverso da me. A parte l’essere stato come me ragazzo a Quarto Oggiaro, Ferraro ha ormai una sua autonomia, vive di vita propria: lui ad esempio arriva sempre in ritardo, io no.