Intervista a Raffaele Mantegazza sul suo ultimo libro “Di mondo in mondo: la pedagogia nella Divina Commedia”. «La scuola va ripensata radicalmente. Non che qualcosa debba non andar bene solo perché è vecchia, per carità, ma è evidente che questo modello non fa più presa, soprattutto sugli adolescenti.»
Ancora un imperdibile incontro conviviale, per i venerdì letterari organizzati da Area Libri di Seregno alla Cascina di Mattia, a Fecchio di Cantù: questa volta con Raffaele Mantegazza e il suo ultimo libro, “Di mondo in mondo: la pedagogia nella Divina Commedia”. Una sfida davvero difficile, quella di allestire una cena ispirata al sommo poema, anche se alla fantasia della cuoca Barbara non manca mai “possa”; ma stavolta il menu più impegnativo era proprio il testo, non certo adatto a chiacchiere lievi, quali ci si immagina possano svolgersi in una serata al ristorante. Dell’autore, promotore e conduttore della scuola di politica rivolta ai giovani ad Arcore, del suo impegno di docente e di pedagogista, educatore di educatori, i lettori di Vorrei sanno già quasi tutto (specie se non hanno perso l’intervista da lui resa a Luigi Dionisio lo scorso anno), ma chi è intervenuto a quella cena ha potuto godere di un’esperienza davvero insolita nel nostro tempo svagato e dissipato: sulla scorta dei versi di Dante, Mantegazza ha proposto, suscitando grande attenzione, partecipazione e dibattito, le più serie e coinvolgenti riflessioni sul senso profondo del rapporto educativo. Perché ogni incontro di Dante nel suo viaggio “di mondo in mondo”, ogni esperienza sensoriale, emotiva, intellettuale, ogni dialogo con le sue “guide”, Virgilio e Beatrice, e con le anime, contribuiscono a educare il viaggiatore e a suggerirci le caratteristiche necessarie ad una educazione che davvero voglia affrontare il compito di renderci più umani, di metterci in grado di non smarrirci di fronte alla consapevolezza del nostro essere mortali.
Commentando la profezia di Cacciaguida, per esempio, Mantegazza propone una visione dell’educazione come apertura al futuro, come proposta di possibilità di cambiamento, che eviti di rimandare alla persona che vogliamo educare un’immagine immobile di quel che riteniamo che essa sia: “sei un chiacchierone”, ma anche “sei un bravo bambino”, sono formule che incatenano alla ripetizione del presente, e l’educazione deve invece sbloccare l’angoscia o l’aridità delle esperienze che tendono a ripetersi. E’ vero che noi possiamo riconoscerci nel nostro essere più profondo attraverso la relazione educativa, ma a patto che questa ci impegni verso quel che possiamo divenire, ci sveli cosa ci accadrà se agiremo in un certo modo, come accade nelle profezie “aperte” della Divina Commedia ( ben diverse da quelle della grecità classica, rivelatrici di un fato inesorabile perché già scritto). Oppure, commentando l’incontro di Dante col Conte Ugolino, Mantegazza ci fa riflettere sul dramma di un educatore che si trovi nella più assoluta impotenza, nell’impossibilità di evitare la sofferenza di coloro che gli sono stati affidati, e che pure resti fino in fondo fedele alla sua responsabilità con la sua presenza, col suo dolore. Nelle stesse modalità dell’incontro con Virgilio, infine, possiamo scorgere un elemento determinante: è già in cammino verso il colle, fuori dalla selva oscura, che Dante, ostacolato dalle tre fiere, sente il bisogno di un aiuto e trova una guida: come a dire che l’educazione è possibile quando l’allievo stesso è desideroso di crescere. Grande dibattito suscita l’affermazione secondo cui il rapporto educativo è basato su una scelta reciproca, perché anche gli educandi scelgano i loro educatori: affermazione che molti ritengono cozzi con una realtà di famiglie o di scuole dove bambini e ragazzi siano spesso costretti a subire educatori del tutto inadeguati. Mantegazza ritiene che, al di là di questo, ciascuno di noi cerchi nella realtà che gli sta attorno i suoi veri maestri. Ed è proprio della realtà concreta della pedagogia, dell’educazione e della scuola nella nostra società che ho parlato con lui in questa intervista.
Sarebbe davvero curioso che la pedagogia, che per altro è stata per tanto tempo una semplice branca della filosofia, e funzionava benissimo, pretendesse adesso uno statuto scientifico”forte”.
A volte penso che, come l’economia è stata definita “la scienza triste”, la pedagogia potrebbe essere considerata una “scienza confusa”: non solo per il suo carattere composito e oscillante fra tecnicismi e grandi visioni filosofiche, ma soprattutto per il suo affannoso rincorrere i cambiamenti della società senza riuscire a trovare un punto di resistenza. E’ per questo che lei cerca nella grande letteratura il nocciolo irrinunciabile e perenne dell’educare?
In effetti, riflettevo qualche tempo fa in margine ad un convegno, sono trent’anni che ci lamentiamo del fatto che la pedagogia non ha un suo statuto epistemologico, ma forse è tempo che di questa debolezza facciamo la nostra forza, più che andare ad inseguire livelli di formalizzazione simili a quelli delle altre scienze. Per altro, proprio queste oggi cominciano a riflettere sul fatto che la rigidità epistemologica le danneggia, non permette uno sguardo profondo sul reale! Sarebbe davvero curioso che la pedagogia, che per altro è stata per tanto tempo una semplice branca della filosofia, e funzionava benissimo, pretendesse adesso uno statuto scientifico”forte”. La pedagogia per me, alcuni colleghi inorridirebbero, è più uno sguardo, un atteggiamento verso il reale, un interesse verso la formazione dell’umano; mi interessa trovare ciò che è formativo specie là dove è nascosto, dove non è intenzionalmente didascalico: nei prodotti letterari, teologici, artistici; tracce di pedagogia sparse rintracciabili nelle culture umane. Forse questo deriva anche da una mia personale idiosincrasia verso tutto ciò che è eccessivamente didascalico, ciò che è troppo pesantemente intenzionato a uno scopo didattico, come certi film del realismo socialista..
Così lei rintraccia nella Divina Commedia, nel rapporto fra Virgilio e Dante, il modello del rapporto maestro-allievo, sottolineando anche la necessità di un vincolo emotivo e affettivo che li leghi: basato però non sul fascino esercitato dal maestro, ma sulla fiducia dell’uno e sulla sollecitudine responsabile dell’altro. Altri invece ripropongono una visione socratica dell’insegnamento, nella quale il maestro sappia accendere il desiderio di conoscenza proponendosi come colui che “attrae” verso il sapere con la sua stessa personalità. Ma è legittimo puntare tutto il successo dell’educazione sulla capacità “seduttiva”, sul “carisma” dei docenti?
Non solo questo sarebbe eccessivo, ma in questo caso diventerebbe debole il discrimine tra educazione, seduzione, e plagio! Io credo allora che l’ancoraggio debba sempre essere sul contenuto: che maestro e allievo siano sì innamorati l’uno dell’altro, ma perché entrambi sono innamorati del sapere, perché condividono un entusiasmo per la cultura, per la poesia, per la singola operazione che stanno svolgendo.. A differenza del rapporto amoroso, che è totalmente rivolto all’altro, quello pedagogico è un rapporto triangolare, dove il terzo elemento è ciò di cui ci stiamo occupando, ciò che ci ha convocati qui: come quando Beatrice esorta Dante a non perdersi nei suoi occhi, ma a guardare al Paradiso, che è fuori. C’è un grande rischio di narcisismo nel fondare il rapporto educativo sull’eros, come fanno alcuni colleghi, anche illustri, e di cui ho grande stima: il rischio di proporre un maestro che non tramonta mai, mentre è chiara nella Divina Commedia la necessità che Virgilio, come Beatrice, come ogni maestro, a un certo punto si faccia da parte, lasci all’allievo la responsabilità di farsi maestro a sé stesso. Forse quello che non si vuol vedere è il fatto che la relazione educativa è una relazione di potere e che, come tale, rischia di diventare una relazione di dominio: e questo è un rischio che non possiamo permetterci di farle correre.
D’altra parte, non c’è solo il rapporto emotivo e affettivo col maestro: lei utilizza spesso il concetto di “dispositivo” educativo, riconoscendolo nelle esperienze del viaggio ultramondano che il “maestro” Virgilio appronta o utilizza per educare il suo allievo smarrito. E’ questo che dovrebbe fare un educatore, approntare esperienze formative e guidare l’allievo a trarne insegnamenti?
È dal mio maestro Riccardo Massa che traggo la nozione di dispositivo pedagogico: noi abbiamo l’idea che educare sia lavorare sulla persona, e certo in senso ampio è vero, ma è necessario anche lavorare sui tempi, sugli spazi, sui corpi, sugli oggetti, predisporli in modo da far sì che l’esperienza accada, renderla possibile, crearne le condizioni. Un buon maestro lavora su queste cose, sulle strutture che condizionano il nostro essere umani e ci permettono di crescere: è colui che sa quale sia l’ora migliore per apprendere, la migliore disposizione dello spazio, che affronta quasi lateralmente un lavoro che ha al centro la persona, ma che appunto per questo deve essere costruito con precisa sapienza e intenzionalità.
La scuola va ripensata radicalmente. Non che qualcosa debba non andar bene solo perché è vecchia, per carità, ma è evidente che questo modello non fa più presa, soprattutto sugli adolescenti.
Ma il dispositivo principale che dall’età moderna la scuola mette in atto è la routine quotidiana degli orari, della turnazione più o meno razionale tra docenti, della trafila spiegazione-interrogazione o verifica. Come è possibile, all’interno di questo modello istituzionale sempre uguale a se stesso, proporre esperienze vere e vive agli allievi?
La scuola va ripensata radicalmente. Non che qualcosa debba non andar bene solo perché è vecchia, per carità, ma è evidente che questo modello non fa più presa, soprattutto sugli adolescenti. Il segmento della scuola superiore in Italia deve essere modificato proprio in questi elementi strutturali, invece si pensa a modificare qualche contenuto o a introdurre elementi eterogenei, come i crediti formativi… In realtà è proprio una questione di orari, di spazi e di tempi! Non possiamo pensare a ragazzi di diciott’anni seduti per ore nei banchi, costretti ad alzare la mano per andare a far la pipì! Questi sono elementi che vanno assolutamente ripensati: non è possibile continuare a proporre strutture come le nostre classi, che sono delle monadi che non comunicano mai, è necessario, seppur gradualmente, iniziare a destrutturare! Un po’ di Ivan Illich potremmo riprenderlo in mano per destrutturare un dispositivo che non tocca più il cuore dei ragazzi.. Ieri ho tenuto un incontro con la consulta provinciale degli studenti di Monza e Brianza e di Milano: restituiscono un’idea di scuola superiore che o è totalmente al di fuori dei loro interessi o che li aggredisce, che li umilia, che li fa soffrire. E questi sono i rappresentanti d’istituto, gli studenti più consapevoli: c’è davvero da riflettere su queste cose.
Oltre a ciò, in questo continuo metter mano a parziali ritocchi, quel che non viene modificato non è forse anche il progressivo svilimento del ruolo sociale degli insegnanti, il logoramento del loro prestigio o del consenso attorno alla loro funzione?
C’è una grande retorica, in realtà, attorno agli insegnanti: li si investe di attese messianiche e poi non gli si danno gli strumenti necessari! Il problema è il progressivo togliere alla scuola risorse e strumenti operativi: non soltanto economiche, ma soprattutto economiche; e più le si sottraggono risorse, più la si investe di attese messianiche… Cominciamo a chiedere alla scuola quello che può dare, cioè l’alfabetizzazione alle culture, che è già molto, chiediamo poi alle altre realtà educative dei territori di attivarsi per le altre funzioni, ma diamogli gli strumenti! Oggi vengono messe in discussione figure come il mediatore culturale, il mediatore linguistico o l’insegnante di sostegno: come è possibile che una scuola che per fortuna è sempre più piena di differenze faccia a meno proprio di queste figure? In Germania tutti gli studenti di lingua madre turca dispongono di libri bilingui, da noi questa disponibilità è una fortuna possibile solo se un dirigente riesce a trovare nelle pieghe del bilancio del suo istituto le risorse. Il nuovo ministro interviene con la novità dei libri di testo offerti in comodato d’uso alle famiglie bisognose: bellissimo! Ma nel nostro istituto abbiamo 1300 studenti e riceviamo 600 euro: con 600 euro si possono dare i libri a tre famiglie! E’ una presa in giro, è la retorica del dire che si fanno le cose, senza però dare gli strumenti. Io penso che da un lato la scuola la scuola debba certo riflettere su sé stessa, ma dall’altro debba fare la voce grossa, rispetto al fatto che se mi chiedi, giustamente, di incidere sulla società, devi darmi la possibilità di farlo concretamente.
La scuola è un’agenzia educativa fra le altre, ma la sua specificità è di educare attraverso i saperi, di trasmettere cioè valori attraverso l’alfabetizzazione alle culture.
Per chiarire meglio quanto lei ha detto sul rapporto tra la scuola e le altre agenzie educative, lei vede forse la funzione dell’educare e quella dell’istruire come due funzioni separate?
No, affatto: la scuola è un’agenzia educativa fra le altre, ma la sua specificità è di educare attraverso i saperi, di trasmettere cioè valori attraverso l’alfabetizzazione alle culture. Questa contrapposizione tra educare e istruire è stata deleteria: da un lato quelli che sostenevano la priorità dell’istruzione, della trasmissione di nozioni e abilità, lasciando la trasmissione dei valori solo all’insegnante di religione. Invece anche attraverso la matematica si trasmettono valori, modi di vedere il mondo: la scuola non può fare a meno di educare, ma lo fa attraverso l’istruzione. È questa la strategia vincente.
E invece è ancora tale la dicotomia nella mentalità corrente che quello di educatore è il nome che si dà a una figura diversa dal docente..
Infatti dobbiamo chiederci perché ci debbano essere gli educatori nella scuola: gli insegnanti sono educatori! Poi ci può essere l’esperto, che si occupa di un particolare contenuto molto specifico, ma quando a scuola entrano gli educatori, mi chiedo, provocatoriamente, cosa ci facciano allora gli insegnanti.
Il problema della riforma è che in realtà non è una riforma: in un paese normale, si fa, per un anno o due, un’analisi seria dell’esistente, che viene resa pubblica, e poi si propone un’idea diversa di scuola.
Insomma, per essere espliciti, di questa ultima riforma in campo, di questa “buona scuola”proposta dal governo e osteggiata dai docenti, cosa dobbiamo pensare, come dobbiamo valutarla?
Il problema della riforma è che in realtà non è una riforma, perché per fare una riforma, in un paese normale, si fa, per un anno o due, un’analisi seria dell’esistente, che viene resa pubblica, dove si dice magari che la scuola fa schifo, ma sulla base di dati precisi, e poi si propone un’idea diversa di scuola. Questa riforma non ha un’idea di scuola! Paradossalmente, e non vorrei essere frainteso, direi che la Moratti aveva un’idea di scuola: che io aborro, totalmente, ma di fatto i suoi interventi corrispondevano a quella sua idea. Cosa dev’essere la scuola nel 2015 per i ragazzi di oggi? A che tipo di bambino, di adolescente, di giovane adulto penso nell’immaginare una nuova scuola? Se non c’è un’idea del ruolo globale della scuola nella società e del tipo di giovane che vogliamo con la scuola contribuire a creare, è evidente che non esiste una riforma.
Il riordino dei cicli non è contemplato: ma è scritto sulle dodici tavole che noi dobbiamo avere tre anni di materne, cinque di elementari, tre di medie e cinque di superiori? Così noi spezziamo in due la preadolescenza: proprio nel momento in cui il ragazzo ha più bisogno di continuità noi lo mandiamo da un’altra parte? Va bene assumere precari, riabilitare la geografia, ma non sono queste le cose che fanno una riforma!
E riguardo al ruolo del preside e al suo rapporto con gli insegnanti, che è uno degli elementi più contestati di questa cosiddetta riforma?
Il preside deve riassumere con decisione un ruolo pedagogico, deve sapere come far funzionare istruzione ed educazione, non come reggere un’azienda. Il preside deve dire in che direzione formativa deve andare la sua scuola, e ci dev’essere poi un esperto di gestione che gli suggerisca i modi concreti, gli strumenti, per realizzare i suoi progetti. Non si può pretendere che nella stessa persona si accentrino due competenze così diverse. Nelle amministrazioni pubbliche il ruolo di indirizzo, di assunzione di scelte e direzioni spetta al politico, sono poi i dirigenti di servizio a indicargli in che modo fare le delibere. In realtà attraverso il tecnicismo, si vuole bypassare il pedagogico, riducendo la scuola ad azienda.