Intervista alla cantante intorno all'ultimo album “Nothing to lose” e a Emily Dickinson
“Ci abituiamo al buio/ quando non c’è più luce,/ come quando la vicina tien sospeso il lume,/ testimone del congedo./ Dapprima i nostri passi vanno incerti/ nella notte improvvisa, / poi gli occhi si adattano alla tenebra/ e affrontiamo la strada”.
Da questi versi di Emily Dickinson è iniziato un percorso di riflessione e di creazione artistica che è approdato lo scorso anno nella produzione del cd Nothing to lose: quasi un’ora di jazz per voce, quella bella e suggestiva di Paola Luffarelli, e strumenti, ovvero le chitarre di Stefano Bassi, l’accordeon di Flaviano Braga, il contrabbasso di Marco Gamba e la batteria di Alessio Pacifico; il quintetto, insomma, che costituisce Vocaland Ensemble. Ma Paola la incontriamo in Area Libri a Seregno, e soltanto per la Notte dei Libri 2015: perciò, di tanta bella musica avremo solo i testi cantati da lei; che non è poco, visto che Paola Luffarelli, da Carate, è una chitarrista, compositrice e cantante jazz di lungo corso, con un importante curriculum di studi sia in Italia che all’estero e di esibizioni e collaborazioni con molti importanti artisti (da Antonio Zambrini a Daniela Panetta), non solo per manifestazioni musicali nazionali e internazionali, ma anche per spettacoli di teatro e danza; vincitrice e finalista di diversi premi, anche di composizione. Alcuni dei brani di questo suo sesto cd, da lei prodotto per Ultra Sound Records, sono scritti interamente da lei, altri in collaborazione con i vari musicisti del gruppo. È a partire dai testi, dal percorso tematico, legato alla poesia della Dickinson (recitata in questa occasione da Giuliana Vazzoler) che si dipana questo incontro in libreria: accompagnato da una musica jazz che accoglie e rielabora altri sapori, questo percorso è una proposta di riflessione sulla necessità di attraversare ogni crisi col coraggio di cercare nuove strade, rassicurando noi stessi, tra mille contraddizioni ed incertezze, convincendoci che dopotutto “non c’è nulla da perdere”. Nothing to lose, appunto: un concept album, come dicono loro, musicisti e critici. Io, che apprezzo da profana la buona musica, non posso che godermi insieme al pubblico presente la bella occasione e contemporaneamente rammaricarmi delle difficoltà che ostacolano la fruizione dal vivo, specie qui in provincia, di un vero concerto eseguito da un intero quintetto di professionisti del jazz. È di questo che ho chiesto a Paola di parlarci.
Ho l’impressione che soprattutto qui in provincia, al di là di qualche esibizione estemporanea, non sia facile trovare occasioni per godere dell’ascolto dal vivo di jazz: il recente Brianza Open Festival può essere forse considerato un’eccezione che conferma la regola. È sempre stato così o anche questo è un aspetto della crisi che sempre più riduce gli spazi per le manifestazioni culturali?
Che ci sia una progressiva riduzione di spazi per l’ascolto o, dal punto di vista di chi la musica jazz la esegue e la produce, per presentare il proprio lavoro al pubblico, è un fatto abbastanza evidente. Ad esempio, il Festival che hai citato è una ripresa, dopo qualche anno di sospensione e grazie all’Associazione Swingology, del Brianza Open Jazz Festival organizzato nel decennio scorso da Giovanna Mascetti: una manifestazione che dava molto spazio ai grossi nomi, abbinandoli però a progetti nuovi e a gruppi nascenti e che coinvolgeva davvero tantissime località in tutta la Brianza. Anche ad Arcore si teneva un Jazz Festival nato nel ‘95 in forma di concorso, che selezionava nuovi gruppi offrendo loro un palcoscenico. E la Civica scuola di jazz a Desio, a Villa Tittoni, ha organizzato per qualche anno dei concerti, una bella rassegna di jazz, a cui Vocaland ha partecipato nel ’98, ma è durata anche questa solo qualche anno.
Ma dunque quali sono stati gli inizi professionali tuoi e del gruppo con cui lavori? C’era una scena musicale più attiva ed accogliente?
È stato un periodo fortunato quello in cui è nato Vocaland: abbiamo iniziato nel ’93-94 con Daniela Panetta, per realizzare un repertorio tutto a due voci; alcuni musicisti, fra i quali ad esempio, Antonio Scarano, un chitarrista e storico arrangiatore in campo jazzistico, ci aveva dato da eseguire arrangiamenti suoi: rivisitavamo brani standard e proponevamo anche brani originali, interpretando a due voci dei brani strumentali. Ecco, in quegli anni abbiamo avuto la possibilità di partecipare a diversi concorsi, ci venivano offerte, e non solo a Milano, ma, come dicevo anche in Brianza, delle buone vetrine, la possibilità di esibirci nello stesso ambito di artisti famosi.
C’era un bel fermento, allora. A Milano c’era “Viva il Jazz”, un concorso con selezione finale al teatro Smeraldo, dove abbiamo potuto esibirci grazie a queste selezioni nel ’99 accanto ad importanti artisti della scena internazionale. C’era poi la Famiglia Artistica che curava una rivista per pubblicizzare tutto quel che riguardava il jazz. Inoltre erano molto attivi i locali storici: il Tangram, il Capolinea, Le Scimmie, che tristemente ha chiuso nei mesi scorsi; il Tangram, in alternativa al Capolinea, offriva uno spazio anche a gruppi innovativi, privilegiava le nuove proposte. Al Tangram abbiamo proposto una mini-rassegna, da sconosciuti quali eravamo, e ci sono state accordate delle serate a patto di garantire un minimo di pubblico.
Oggi i musicisti continuano a produrre cd, a sperimentare nuovi percorsi, ma mancano gli spazi per proporsi e farsi conoscere.
Ma i motivi sono di carattere economico o è diminuito l’interesse del pubblico per il jazz?
Oggi in genere i locali ospitano le esibizioni di jazz a condizioni che si potrebbero definire di sfruttamento dei musicisti, almeno di quelli di fascia intermedia: è tutto sottocosto, sottopagato, la musica viene intesa come un diversivo da offrire al pubblico, non è l’attrattiva principale. Così, o si invitano le star o si propongono solo jam session, che riempiono il locale comportando un impegno economico minimo, ma contemporaneamente implicano una ripetitività del repertorio. Si improvvisa sugli standard, ci si diverte suonando, ma tutto ciò che è nuovo rimane difficile da proporre, la creatività non viene alimentata. I costi sono diventati sempre meno sostenibili, è vero, ma forse, specie in provincia, il jazz è sentito come una musica per un pubblico ristretto, un po’ di nicchia. Si fa davvero fatica a trovare un canale per proporre l’innovazione.
Insomma, c’è una sorta di declino della musica jazz? Soppiantata da altri generi più graditi ai giovani e perciò più redditizi?
No, non parlerei di declino. A Milano nuovamente si registra un bel movimento grazie ad una cooperativa che ha vinto un bando della Cariplo per la diffusione del jazz, e ha potuto rilevare una serie di spazi cittadini: ne è nato Il Ritmo della città, un grosso Festival che coinvolge anche un pubblico di giovani in zona Città Studi, ma è un circuito un po’ chiuso, in cui lavorano un po’ sempre le stesse persone.
Certo, il grosso pubblico si rivolge a generi più “facili”: il jazz, specie in provincia, viene identificato come qualcosa di impegnativo, in cui capita che chi suona, specie se in “solo”, si diverta di più rispetto a chi ascolta… Ma questo perché ci sono dei cliché sbagliati: si pensa al jazz quasi solo come Free Jazz, come improvvisazione continua, o solo come esecuzione di standard, del repertorio base o degli stili classici, quali dixieland, swing o bebop, in cui si esprime l’universo del jazz . Ma a mio parere oggi il jazz è da intendersi come sintesi di generi, ricerca di un linguaggio personale e di un rapporto elastico e complementare tra improvvisazione e scrittura.
È questo che fai tu? Abitualmente e/o in questo nuovo cd?
Io ho attraversato diversi mondi musicali, ho lavorato con musicisti che praticano il tango, amo la milonga, il samba, la bossa nova, la musica etnica e cantautorale. Mi sono proposta, specialmente in questo ultimo cd, di farne una sintesi, di andare oltre le definizioni di genere: alcuni lo hanno definito un cd di etno-jazz, ma l’idea è di non appiattirsi sulle classificazioni. Tutti vogliono sempre collocarti!
È così anche in letteratura, dopotutto: si cerca di attribuire ogni nuovo libro a un genere, anche semplificando i suoi motivi, sacrificandone la ricchezza. Un esercizio sterile, insomma! Ma c’è, nel tuo jazz, anche un rapporto con la letteratura: con la grande poesia che può guidarci e ispirare il nostro cammino anche nei momenti più bui…
Sì: quel che intendevo fare era, sulla scorta dei versi della Dickinson e di Pessoa, riflettere su come si possano affrontare i momenti di crisi, di incertezza, come quello che stiamo vivendo, senza piombare nell’angoscia, senza rimanere bloccati dall’indifferenza. Osare almeno una possibilità, come ho fatto personalmente con la mia musica: misurarsi con la bellezza, con la semplicità, col senso di fiducia, coltivare un desiderio di saggezza. “You must believe in spring”, anche se la primavera è una fuggevole“fata morgana”.
Perchè, per dirla con Pessoa, “poco importa da dove viene la brezza, se mi avvolge la melodia”.