Intervista a Elisabetta Bucciarelli. Nel suo nuovo romanzo mette in scena le derive dei tradizionali modelli del maschile e del femminile: «L’assenza è una caratteristica comune agli uomini che tante di noi incontrano, quelli che si negano, che sfuggono a impegni duraturi»
Un sasso nello stagno, una provocazione, un test proiettivo? Solo un romanzo, in realtà, ma un romanzo che mette in scena le derive dei tradizionali modelli del maschile e del femminile e ne fa intravvedere i possibili mutamenti, che si interroga e ci interroga, noi donne e uomini, sulla legittimità delle reciproche aspettative nei mutati scenari dei ruoli sociali e delle libertà di scelta, e che perciò scatena nei lettori intense reazioni che vanno molto al di là della semplice identificazione coi protagonisti che ogni storia ben scritta propone.
Questo accade, o meglio, questo a me è accaduto, e mi scuso con l’autrice e con i lettori per questa accesa “parzialità” della mia lettura, con La resistenza del maschio, il nuovo libro di Elisabetta Bucciarelli: nuovo anche per la scelta di NNeditore, che lo ha pubblicato nella collana ViceVersa con una bella veste, curata ma economica, e soprattutto nuovo perché abbandona la caratterizzazione di genere per la quale sono stati finora noti al pubblico e premiati dalla critica i noir della Bucciarelli, anche se questa caratterizzazione non ne esauriva l’orizzonte, perché comunque il suo raccontare allungava lo sguardo oltre i confini del genere. Qui, lo sguardo insiste su nodi cruciali e difficili delle relazioni uomo-donna e della comunicazione tra loro, della libertà e della responsabilità reciproche. Non ci sono crimini in questo romanzo, se non, forse, come eventuali colpe, violazioni di un’etica delle relazioni uomo-donna che alcuni riconoscono come vincolante e altri non più; anzi, c’è lo sforzo di rappresentare i diversi punti di vista e desideri senza giudicarli; ci sono però, come in un noir, rivelazioni progressive e colpi di scena imprevisti, resi possibili da un congegno narrativo avvincente. E’ ad iniziare dalla struttura della narrazione che ho posto all’autrice le mie domande nel corso della recente presentazione del romanzo presso Area Libri a Seregno:
Capitolo dopo capitolo, la tua narrazione sembra costruita in modo da contrapporre il mondo maschile e quello femminile: il primo, attraverso il protagonista, colto nel suo muoversi nel mondo esterno, nel suo lavoro e nelle sue relazioni sociali, il secondo, rappresentato principalmente da tre donne che aspettano in una sala d’attesa il loro ginecologo, concentrando la loro conversazione sui rispettivi uomini, in una situazione sempre più claustrofobica. Perché?
In realtà la trama è semplice: c’è un uomo, un affermato professionista, impegnato nelle sue attività e negli incontri quotidiani, nei rapporti legati a questi, il quale assiste a un incidente, un incidente reale che assume anche il valore di una metafora, dal momento che scatena un cambiamento. Mentre lui vive nella linearità del tempo la sua esistenza, parallelamente, tre donne si incontrano nella sala d’attesa di un medico, che è un altro dei modelli del maschile che dobbiamo osservare: di là c’è il marito, il professionista, il lavoratore, l’amico, di qua l’uomo, per eccellenza, capace di prendersi cura. Le tre donne sono in una naturale situazione di attesa, di per sé non forzata e claustrofobica, che diviene però tale quando il medico atteso continua a differire il suo arrivo. Mentre aspettano si raccontano, come capita alle donne, tutto quello che di intimo appartiene alla loro vita; un modello noto anche questo, quello delle donne che, incapaci di fare squadra, se si incontrano per un certo tempo, anche sul treno, si raccontano le loro cose più intime. In questo caso, in verità, parlano di una sola di queste cose, ossia di quello che stanno osservando negli uomini che fanno parte della loro vita. Costruiscono così insieme il ritratto di un uomo che ha delle caratteristiche in comune con quell’altro uomo di cui racconto e con gli altri uomini fuori. Non so se di claustrofobico c’è di più in quella sala d’attesa o fuori: quel che è certo è che c’è davvero qualcosa di fortemente claustrofobico, dentro e fuori, e sono i modelli maschili esistenti, dentro i quali non riescono più a stare né gli uomini né le donne. Quelle tre donne nella sala d’attesa dicono (non è detto che noi siamo d’accordo, questo è quello che loro dicono) che gli uomini non proteggono più, non curano più, che quando ti avvicini fanno un passo indietro, che ogni aspettativa che tu hai nei loro confronti viene disattesa, disillusa, procrastinata, spostata sempre più in là. Mentre quell’uomo, che ha tutto e che paradossalmente sembrerebbe sconfessare quello che loro dicono, dice no a una sola cosa, dice no a una donna che gli chiede un figlio. Dopo dieci anni di matrimonio in cui sembra che sia accaduto tutto quello che una coppia si attende per essere “perfetta”, la moglie desidera un figlio che lui invece non vuole. Diversamente da quel che fanno di solito gli uomini, i quali dopotutto pensano che i figli li crescano le donne, sostiene la non necessità di un figlio nella sua, nella loro vita, dichiara la sua indisponibilità, oppone la sua resistenza a questa richiesta, così come gli altri uomini, nel racconto delle altre, si oppongono ad altre aspettative.
Insomma, se la stanza non rappresenta la contrapposizione dei due mondi, rappresenta però una chiusura, una costrizione in modelli non più vivibili.
Però è vero anche che la stanza chiusa suggerisce a chi legge altre stanze letterarie, da quella tutta per sé di “una” molto famosa, alla “gabbia” del femminile, alla cella, immagini che sembrano dire che forse non riusciamo a sfuggire da questa claustrofobia del femminile chiuso, come mi è già stato obiettato. Io in realtà ho sostenuto, e lo ripeto: “nelle gabbie più strette, la libertà maggiore”; la mia ispettrice Vergani l’ho tenuta per quattrocentocinquanta pagine agli arresti domiciliari, ma a nessuno è sembrata limitata nell’agire. Anche quelle tre donne dentro la sala d’attesa sembrano muoversi molto di più in quell’interno di quanto non succeda fuori.
Una di loro dice: “Prima siamo giovani, poi siamo vecchie, nel mezzo c’è il vuoto”
A me però queste donne sono sembrate più prigioniere, rispetto all’uomo, a quell’uomo, delle aspettative e dei ruoli tradizionali… Pur trattandosi di donne giovani, che esercitano professioni creative, la loro conversazione insiste esclusivamente sui loro rapporti con gli uomini: anche solo questo non fa parte di un modello femminile che potrebbe essere superato?
Riguardo all’esser giovani, una di loro dice: “Prima siamo giovani, poi siamo vecchie, nel mezzo c’è il vuoto”. Che è il vuoto dell’attesa. Abbiamo, nel romanzo, un campo di esistenza che va dai trent’anni agli over cinquanta, ma in questo campo di esistenza troviamo dei punti in comune, tanto che tu non riesci a tutta prima a distinguere chi è quella di cinquanta dalle altre, perché gli argomenti di cui loro parlano sono trasversali, e non sono solo i mariti o gli amanti o i figli, o i genitori. Il maschile incombe sempre, anche in quella che, estremizzando, sembra essersi liberata da vecchie aspettative, dice di volere solo un corpo, incorrendo però anche qui nel rifiuto: nel momento in cui propone questo, che è sempre stato un punto fermo del maschile, si vede opporre un’altra resistenza, l’accusa di voler consumare i rapporti, di voler dettare tempi e regole, l’invito ad imparare a desiderare. Un’obiezione che viene, però, da parte di quell’uomo che ha fatto almeno un passo oltre i vecchi modelli; e questo passo avanti, per quanto debole e non definitivo, spiazza.
Queste donne parlano al maschile anche quando parlano di figli. Come mai?
C’è un motivo preciso, funzionale alla storia, ed ha a che fare con la necessità che mi ha spinto a scrivere questo libro, col senso che ha per me che l’ho scritto. La mia domanda era: quali modelli maschili, che non siano solo il padre o il nonno, posso proporre a un ragazzino di dieci anni? Una risposta diversa da quelle che si dà mio figlio: il calciatore di serie A, il giocatore di tennis, il rapper; o lo zio che è libero dalla famiglia e fa quel che vuole; mio figlio che mi chiede se gay si nasce o si diventa. Tutte queste domande fatte da un maschio piccolo hanno fatto scattare in me la necessità di guardare i modelli maschili intorno per cercare di vedere se c’è qualcosa di diverso che mi è sfuggito. L’uomo della storia è la sintesi di quello che ho potuto osservare o apprendere attraverso i racconti di diversi uomini/maschi che in questi tre anni ho raccolto e che andassero in questa direzione: declinare il maschile in un altro modo. Io sono una donna e ho perciò fatto una fatica tremenda. Quello che mi auguro è che possano farsi avanti uomini che abbiano voglia di raccontarsi nella differenza. E capita, in effetti, che mi scrivano uomini per dirmi “Grazie per avermi capito”, per aver capito, cioè, che quello che vogliono è avere rapporti diversi con donne diverse: l’amica sui social network, quella a cui dare la buonanotte su Wathsapp, la moglie e madre dei loro figli, magari una ex da vedere ogni tanto, ma tutte in una geografia di rapporti sentimentali autentici che li rendono felici (sto usando le mie parole, le loro sono più forti e taglienti, e interessanti). Accade anche che uomini e donne che hanno vissuto storie intense e dolorose incomprensioni abbiano avuto modo di rileggerle e impugnino questo libro per rivendicare ciascuno le proprie ragioni. Insomma, ho voluto capire se c’era la possibilità di raccontare queste storie facendole diventare una storia semplice, rappresentando le aspettative delle donne nelle storie delle protagoniste.
Quello che mi auguro è che possano farsi avanti uomini che abbiano voglia di raccontarsi nella differenza. E capita, in effetti, che mi scrivano uomini per dirmi “Grazie per avermi capito”
Infatti è chiaro che i personaggi qui sono rappresentativi di alcune categorie. Una volta si diceva: ”personaggio o tipo”? Il protagonista è in verità il personaggio più ricco, con un carattere più delineato e complesso, pur rappresentando anche lui un nuovo possibile modello. Le donne sono forse piuttosto dei tipi.
Frammenti di femminilità, direi. L’Uomo è il personaggio di cui mi sono presa cura, lo conosco, so tutto di lui, potrei parlare come lui e fare qualcosa al suo posto. Per le donne, invece, non ho voluto costruire dei personaggi rotondi, ho individuato tre caratteristiche femminili importanti, che spesse volte intorno a noi predominano sulle altre, come la rigidità della moglie che vuole un figlio, e le ho esasperate, le ho fatte diventare la cifra di quel personaggio, perché immediatamente le donne, leggendo, potessero vedere quel pezzo e dire: Beh, io non sono proprio così, a volte sono così. C’è poi una donna, molto importante, fuori da quella sala d’attesa, che rappresenta l’unica modalità femminile capace di accogliere, l’unica che sta capendo quello che sta succedendo agli uomini. Ho fatto quindi un torto a queste donne, perché non le ho consegnate alla complessità, ma tutte insieme fanno la complessità del femminile.
…che ha in comune la ricerca di un “uomo”. Nella lingua italiana, purtroppo c’è questa confusione nell’identificare con la stessa parola il maschio della specie e la specie stessa. Il modello maschile più diffuso, quello appiattito sul ruolo del maschio, sulla relazione sessuale, non è forse un modello riduttivo e negativo? È, nel tuo romanzo, quello rappresentato dall’Amico, no?
L’Amico è un minus habens, un minus 3.0. Ci sono uomini che dalla mattina alla sera, senza possibilità di pause, pensano solo a “quello”, con la moglie, con la segretaria, con quella che gli passa accanto sul tram, sempre pronti a soddisfarne la fame, anche fisica, soprattutto fisica; non solo, ma identificano completamente l’essere uomini con questo, ritenendo carente, difettosa, qualsiasi altra modalità. E spesso purtroppo questa è anche una convinzione condivisa dalle donne. L’assenza è comunque una caratteristica comune agli uomini che tante di noi incontrano, quelli che si negano, che sfuggono a impegni duraturi: un incontro, un caffè dopo mille telefonate, una vacanza, ma poi spariscono. Fino ad arrivare ai sessantacinquenni che hanno un’amante che non vuol saperne di condividere con loro la quotidianità, delegandone alla moglie gli aspetti più prosaici. Questa distanza e questa assenza esasperata sembrano connotare una tipologia di uomini/maschi attuali, che vanno alla ricerca dell’ accoppiamento selvaggio e libero, saltando anche la “perdita di tempo” di preliminari tradizionali come l’aperitivo o il cinema. Ecco, l’Uomo con la maiuscola, quello sui generis, un po’ speciale, che somiglia al protagonista, si definisce per differenza da questa categoria, lui è diverso.
L’assenza è comunque una caratteristica comune agli uomini che tante di noi incontrano, quelli che si negano, che sfuggono a impegni duraturi
Per fortuna…
Non è detto: forse anche quella del protagonista non è una categoria risolta, perché non c’è accoglienza del femminile. Il maschio oppone una resistenza quando l’una vuole un figlio ad ogni costo, ma anche quando l’altra vuole un corpo secondo i propri tempi e le proprie regole (“faccio quello che hai sempre fatto tu”), e quando la terza è disposta a superare le disillusioni, ma vuole ancora uno che la corteggi e la sposi e faccia una famiglia. Questa resistenza è però anche una resilienza: io sono un maschio cosiffatto perché il danno è collettivo, e nel momento in cui le donne si spostano anche noi uomini cerchiamo nuove modalità. Perciò bisogna che guardiate dove stiamo andando, oppure non riusciamo più a comunicare. Questa è la provocazione del libro.
Nel momento in cui l’arte non ha più nulla contro cui opporsi, perché non ci sono più regole, anche la distruzione può essere una forma di creazione.
Non è dunque solo una forma di controdipendenza, questa resistenza del maschio? Una ribellione, un istinto ad opporsi, a distruggere ciò che viene sentito come obbligatorio? Un po’ come fa il tuo “pazzo dell’arte”…
Il Pazzo dell’Arte è un personaggio reale, di cui ho già parlato da altre parti, uno che entra nelle gallerie d’arte milanesi e vuole aprire i tagli di Fontana, spaccare i vetri in mostra e così via. In questo romanzo, il protagonista lo incontra ad una delle mostre da lui curate e considera tra sé e sé che nel momento in cui l’arte non ha più nulla contro cui opporsi, perché non ci sono più regole, anche la distruzione può essere una forma di creazione. Il no che l’Uomo contrappone al desiderio femminile di un figlio è motivato: c’è intorno a lui una incomprensione, tutti pensano che sia strano, che abbia bisogno di aiuto, di cure specialistiche, ma lui sa che il suo no è fondato sul suo legittimo desiderio e lo dice, lo motiva; e i suoi sono motivi che nella realtà non pochi maschi condividono, anche se si trovano nella difficoltà di dirlo. Esistono dei clichè che lui cerca di ribaltare prendendo a prestito dei pezzi dai modelli femminili: la procrastinazione del desiderio che ne evita l’esaurimento, la complicità delle chiacchiere: nello spogliatoio succedono paradossalmente le stesse cose che succedono nella sala d’attesa del medico tra donne. Così l’Uomo cerca di opporsi: vorrebbe che si potessero distruggere quei modelli maschili, ma tutto incombe così pesantemente. Dovremmo noi prima svuotarci delle aspettative legate a quei modelli. Per questo dico che sono questi la vera gabbia. Io temevo di non aver reso abbastanza amabile questo Uomo, temevo che il libro fosse letto contro questo uomo; temevo di essere troppo partigiana con loro. Invece il libro ha avuto commenti e letture opposte: la Bucciarelli “veterofemminista” o la Bucciarelli che “non ha paura delle femministe”. Dal mio punto di vista è una soddisfazione massima: questo vuol dire che i pesi sono stati bilanciati, che sono riuscita nel mio sforzo di non esprimere giudizi, che è stata la cosa più difficile.
È uno sforzo che si avverte chiaramente, si sente che cerchi di rappresentare una realtà di reciproche aspettative e frustrazioni, senza giudicarle, ma è inevitabile per chi legge prendere posizione. A me è sembrato che queste donne non si sforzino di capire e di cambiare. In questo senso, non si può dire che il maschio protagonista è migliore?
Risponderei di no, perché fa soffrire tante donne con la sua resistenza. Ma se mi dicessi il contrario, ti ricorderei che lui sta facendo tanta fatica. Ritorno al punto più importante, che è per me come insegnare o mostrare ad un figlio che cresce la strada per una parità che non passi dal mettersi il grembiule e lavare i piatti, dal non giocare solo con le macchinine o dal permettersi anche di piangere. Se cerco questa risposta, devo guardare al punto di rottura, al punto critico, là dove gli uomini, per esempio, cercano una unità di coppia che non debba per forza rispondere al desiderio di maternità. Rispetto al quale ci si può chiedere, ad esempio, quanto sia autentico e quanto non sia per caso anche indotto socialmente.
C’è una mutazione in corso, dovuta anche al contesto sociale. Nelle fasce sociali più basse, i maschi reagiscono con la violenza, tu li fai sentire falliti e loro ti menano, nelle fasce più alte cercano di intellettualizzare questa realtà, facendo gli esistenzialisti, isolandosi o nascondendo la realtà grazie al portafogli dei genitori.
E invece le tue tre donne non sono forse ferme al clichè della maternità e dell’amore esclusivo?
Ma ne hanno tutto il diritto! Anche io credo fortemente che se io voglio uno e lui vuole me, siamo in due e basta! A parte il fatto che una delle tre accetta anche di condividere gli uomini, basta saperlo, basta che non ci siano dietro la menzogna e il tranello. La differenza sta nel riconoscere chi si ha di fronte! Il problema nasce nel momento in cui tu continui a chiedere la stessa cosa, ad aspettarti la stessa cosa, da un uomo che non corrisponde più a quel modello. Non c’è solo la monogamia, ma, ad esempio, l’affermazione sociale, l’indipendenza economica: perché una donna a quarant’anni può anche essere una precaria, mentre un uomo no? L’uomo che non ha un lavoro si percepisce come un fallito, uno che non sta in piedi da solo, anche perché questa immagine gli verrà rimandata dalle donne. C’è una mutazione in corso, dovuta anche al contesto sociale. Nelle fasce sociali più basse, i maschi reagiscono con la violenza, tu li fai sentire falliti e loro ti menano, nelle fasce più alte cercano di intellettualizzare questa realtà, facendo gli esistenzialisti, isolandosi o nascondendo la realtà grazie al portafogli dei genitori. Rimane il fatto che le donne spesso non vedono con chiarezza queste difficoltà, perché vanno avanti col loro obiettivo e con la loro aspettativa. È il loro limite, ma sarebbe anche il mio, se questo genere di maschio dovessi sceglierlo per farci una famiglia: a osservarlo per parlarne riesco a volergli bene, a guardarlo nelle sue difficoltà, ma non c’è di mezzo il desiderio. Le donne non hanno capito che non possono più permettersi quel desiderio senza tenere conto della mutazione in atto. Soprattutto le più giovani, perché dopo i vent’anni sei costretta a fare i conti con la realtà e a rimettere in gioco la parola desiderio, vedere quanto c’è dentro di tuo o di indotto, quanto c’è dentro di possibile e di praticabile. Una bella complessità, direi: ancor prima di rispettare il desiderio dell’altro, già riconoscere il proprio è il lavoro di una vita.
Ma c’è qualche modello maschile che possiamo salvare?
C’è chi salva il padre, ad esempio; io salvo il maestro, l’insegnante, chi è capace di trasferire un sapere con passione; ci sono uomini che sono capaci di trasferire nella condivisione del sapere tutta loro libido, la loro identità maschile. Ma talvolta è una trappola per noi donne, innamorarci del maestro sperando di trovare l’uomo: cosa che è difficile che accada.
Ma talvolta è una trappola per noi donne, innamorarci del maestro sperando di trovare l’uomo: cosa che è difficile che accada.
In tutto questo cambiare che ne è del linguaggio? Intanto come cambia anche il tuo linguaggio, la tua scrittura? Non tende ad essere sempre più rarefatta?
Cerco la rapidità del ritmo, e questo mi viene dalla scuola del noir, oltre che dalla preoccupazione di non annoiare il lettore: la brevità ha anche lo scopo di non fargli perdere troppo tempo nel caso che il libro non gli sia piaciuto… Devo essere veloce! Ma non è vero che la mia scrittura è sempre più rarefatta: era molto più paratattica e fastidiosa quella dei miei primi noir, quella di “Io ti perdono”, in cui lasciavo al lettore il compito di completare dei passaggi. “Dritto al cuore” era una camminata in montagna, mi sono permessa di respirare; qua ho disteso il pensiero, ma ho fatto un lavoro di sintesi, ho cercato la parola necessaria.
Mi riferivo infatti all’essenzialità del tuo linguaggio…
Una lettrice ha scritto sui social che ha trovato in questo libro le “sue” parole. Ecco, questo per me che scrivo è molto importante. Qui faccio parlare un uomo ed era fondamentale trovare le “sue” parole: ho riempito dieci quaderni, lo sapete che sono un’ossessiva compulsiva, di parole maschili, sbobinando, stando al telefono, chiedendo agli uomini che ho preso come esempio di ripetere. Ci sono moltissimi dialoghi in questo libro, anche dialoghi in watsapp o in skype, cosa che non avrei mai voluto fare, ma che credo sia necessaria perché sta cambiando, la nostra comunicazione, e gli uomini parlano in modo diverso dalle donne. Non è una banalità: a volte noi donne ci arrabbiamo perché non sappiamo decodificare la loro modalità comunicativa. Lo sforzo è stato di guardare dietro i pensieri di quest’Uomo, di esplicitare il retropensiero che viene taciuto e che è diverso da quello che immaginiamo. Gli uomini fanno un lavoro di sintesi diverso dal nostro, orizzontale, che non vuol dire superficiale e banale: capire la comunicazione non vuol dire per noi parlare di più per farci dire più cose, ma tener conto del fatto che gli uomini sono spesso ambigui, lasciano, e non per dolo, uno spazio all’ambiguità. Dice l’Uomo: “Nell’ambiguità si dà una libertà all’interlocutore.” Loro sanno che nell’ambiguità c’è quel passaggio che è lo spazio per un incontro con noi.
Alle parole tu dedichi un’attenzione sempre maggiore, le proponi anche come gioco o come parte dell’identità del personaggio. Non è così?
Assolutamente sì. Le tre donne nella sala d’attesa dicono che degli uomini che non abbiamo più, che ci hanno abbandonato o che abbiamo abbandonato, ci restano non solo gli oggetti, ma anche le parole, quelle che dicevano, quelle a cui erano affezionati. “Odeporico”, diceva lui. Parole strane, perché un altro gioco è di sperare che nei miei libri ciascun lettore trovi almeno una parola che non conosce... Senza che questo comprometta la comprensione del testo, s’intende.
Se non modifichiamo il linguaggio non modifichiamo il pensiero: per me funziona così, non il contrario.
Nel linguaggio usato dal protagonista tu rappresenti uno scarto: quello tra le parole che gli verrebbero spontanee, che usa quando pensa, che sono quelle che comunemente chiamiamo parolacce, e quelle che invece sceglie quando parla in pubblico, scartando le prime: pensa “puttana”, ma dice “prostituta”. Che senso ha per te questa duplicità?
Quelle parole tremende che portano a casa i bambini, e che non sarebbero di per sé parolacce, ma lo diventano se le usi per parlare della maestra o della madre del tuo amico, corrispondono a un vecchio modo maschile di pensare e di parlare. Sono parole che i bambini imparano dai pari prima che la madre possa insegnargliene di più rispettose. Il linguaggio imparato per imprinting è quello che forma la mente, dei maschi come delle femmine. Se non modifichiamo il linguaggio non modifichiamo il pensiero: per me funziona così, non il contrario. Il lavoro sotterraneo sul linguaggio segue, in questo libro, questa logica: quella della ricerca di un uso del linguaggio consapevole.
Tra le diverse citazioni di opere d’arte, di canzoni o di film, mi ha colpito in particolare quella di Youth di Sorrentino. Come mai lo citi? Ha qualcosa a che vedere il suo manierismo con la tua ricerca formale sulla parola?
Sicuramente c’è ricerca della forma, ma io qui parlo di un uomo che lavora proprio sulla forma, sull’architettura. Di Youth viene ritenuta dal protagonista soprattutto la colonna sonora, il cui refrain richiama alla voce. La voce è uno dei sensi meno considerati, eppure attraverso la voce passano i contenuti più importanti: le cose più importanti che succedono nel libro hanno a che fare con la voce, accadono attraverso voci, non tra corpi che si uniscono. Ho citato quel film anche perché trovo bellissimo il fatto che abbia affrontato proprio attraverso un’estetica esasperata, che era però l’unico modo possibile, un tabù tremendo come quello della vecchiaia, della decadenza dei corpi. E nel gesto del mio protagonista di fronte alla scena più famosa di quel film, si può leggere anche il rifiuto della glorificazione dei corpi giovani, dell’affidare a loro soltanto l’esaudimento di ogni desiderio. Rifiuto che è anche il senso del paradosso a cui affido il finale del mio romanzo.