La mostra dell'artista pop in corso all'Orangerie della Villa Reale di Monza. 140 pezzi, 5 sezioni a cura di Maurizio Vanni
Avete mai visto un’opera di Andy Warhol sgradevole? Io no, mai. Le sue sono sempre piacevoli e concilianti, anche quando riprendono elementi drammatici della realtà, come la prima pagina del Mattino di Napoli dopo il terremoto (“Fate presto”, 1980) o la serie della sedia elettrica (“Electric chair”, 1964). Colori forti, composizioni gradevoli. Lavori ruffiani, o accativanti se preferite, né più né meno che una confezione di detersivo (“Soap pads”, 1964) o una lattina di zuppa (“Campbell's Soup Cans”, 1961-1962), fatti per attirare l’attenzione e piacere. Un po’ come le sue mostre: come può non piacere una carrellata di immagini arcinote dai colori sgargianti? Si sa, l’estetica pop per sua natura non è mai disturbante, anzi rifugge come la peste la possibilità di contraddire qualcosa o qualcuno. Semmai può ricorrere a provocazioni facili facili, come quelle — ma dai!? — a sfondo sessuale, vedi la banana che si sbuccia o il pacco gonfio dei jeans sulle copertine dei Velvet underground e dei Rolling stones.
Un mondo sgargiante, esageratamente sorridente, un po’ come quei programmi di lifestyle televisivi dove tutto è cool o come le vetrine di un negozio. L’arte di Andy Warhol è una vetrina in fondo: mette in risalto le merci più richieste, i personaggi e le tendenze del momento: il volto di Marilyn o l’acquisto compulsivo, che differenza fa? Un inno al mainstream che deve piacere a quanta più gente possibile. Come una bevanda piena di zucchero e bollicine (“Coca-cola”, 1962) e magari arrivare nelle mani di quanta più gente possibile. Da lì una produzione industriale di “opere” in quella che giustamente si chiamava Factory (non studio, non atelier), ovvero la sua fabbrichetta artistica. Basti ricordare che alcuni anni fa la Fondazione che tutt’ora ne gestisce i diritti mise in vendita circa 20.000 opere in un colpo solo.
“Joseph Beuys”, 1980
A Warhol dell’unicità dell’opera evidentemente non importava nulla, anzi. Il suo era un approccio all’opposto di quello romantico. Eppure non gli si può certo negare la capacità alchemica di trasformare oggetti comuni in oggetti di culto. Che è poi il tema della mostra in corso all’Orangerie (ex Serrone) della Villa Reale di Monza, ANDY WARHOL. L’alchimista degli anni Sessanta. Il curatore Maurizio Vanni infatti scrive «Nelle serie dell'artista americano, la realtà veniva trasformata, fatta rinascere e virare verso qualcosa in cui tutti potevano riconoscersi: l'oggetto quotidiano che alludeva a qualcosa di altro rispetto alla sua funzione consueta pur rimanendo integro e riconoscibile.»
Il curatore Maurizio Vanni
Il percorso — suddiviso in cinque sezioni e composto da 140 pezzi — appaga sicuramente il visitatore, Mao e Marilyn di vari colori non mancano. Così come esemplari originali delle già menzionate copertine dei dischi (molte di più di quelle che vengono in mente) e azzarda anche qualcosa di meno scontato come la serie sui travestiti (“Ladies and gentleman”, 1975).
L’allestimento è sobrio, i lavori si osservano bene, c’è anche la saletta proiezioni. Insomma nulla da eccepire, neppure sulla soluzione adottata per la rotonda dell’Appiani (foto di apertura), ma lì resta inarrivabile per quanto mi riguarda l’allestimento visto nel 2009 per “Gli anni Ottanta”, curato da Marco Meneguzzo presentando una pietra miliare di Mimmo Paladino (“Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro”, 1977).
Non so se questa mostra aggiunga o tolga qualcosa a quanto di Warhol sappiamo già. Prima o poi qualcuno affronterà il lato oscuro del signor Warhola (il nome originario della sua famiglia) e allora ne riparleremo. Quella tenebrosità tutta yankee incombente dietro i sorrisi perfetti, i lustrini e i colori complementari. Quelle ombre, per intenderci, tanto care ai “suoi” Velvet underground. Quelli dell’estetica sado-maso degli esordi e quelli postumi, di quando Lou Reed e John Cale si riunirono ancora una volta per tributare al loro vecchio amico — morto nel 1987 — un album meravigliosamente malinconico (“Songs for Drella”, 1990). Erano gli anni in cui Reed era in uno stato di grazia strepitoso e pubblicava dischi come New York (1989) o Magic and loss (1992).
You might think I’m frivolous, uncaring and cold
You might think I’m empty
depends on your point of view
Forse pensi che sia frivolo, insensibile e freddo
forse pensi che sia vuoto
dipende dal tuo punto di vista
(Forever changed)
L’esibizione live e integrale di Songs for Drella di Lou Reed e John Cale, 1990
ANDY WARHOL. L’alchimista degli anni Sessanta
Monza, Reggia di Monza Orangerie (viale Brianza, 1)
25 gennaio - 28 aprile 2019
Orari:
Martedì-venerdì, 10.00 - 19.00
Sabato, domenica e festivi, 10.00 - 19.30
Lunedì chiuso
Biglietti:
Intero: €10,00
Ridotto: €8,00 (over 65, ragazzi 7– 18)
Ridotto convenzioni: €6,00 (FAI, ARCI, ACI, Touring Club, BNL dipendenti, Associati Confindustria Monza e Brianza, Internation Broker Art dipendenti)
Gratuito: bambini fino a 6 anni; diversamente abili; giornalisti accreditati, Icom
Curata da Maurizio Vanni, prodotta dal Consorzio Villa Reale e Parco di Monza e dall’Associazione Culturale Spirale D’Idee in collaborazione con l’Associazione Culturale Metamorfosi, col patrocinio del Comune di Monza e della Regione Lombardia, con la partecipazione nel catalogo realizzato da Silvana Editoriale della The Andy Warhol Art Works Foundation for the Visual Arts.
Info: www.reggiadimonza.it/warholmonza
Vladimir Luxuria, curatrice del testo “Donne ribelli”