I racconti del bancone. Dopo un po' che facevo il morto e mi lasciavo cullare dalle onde, basse e continue, ho provato ad alzarmi in piedi e, orrore, non toccavo.
Anni fa, quasi venti — ho rischiato di annegare — o almeno ne sono convinto. Una notte, sulla spiaggia, dopo una giornata di sole e di aperitivi col giusto tasso di alcool e goliardia in corpo ci siamo spogliati e e buttati a mare per una nuotata sotto un cielo incredibilmente stellato, senza neanche un'ombra di luna. Io non so nuotare, normalmente diffido dell'acqua ma l'incredibile malìa di quella sera sarda e il timore di rimanere l'unico fesso, da solo, in spiaggia mi ha portato a tuffarmi con gli altri.
L'acqua era ferma e incredibilmente calma, calda. Dopo pochi minuti avevo perso il controllo di quello che stavo facendo e sguazzavo felice in questo liquido fermo e nero che mi avvolgeva e mi incuriosiva. Mi sembrava impossibile che fosse così buio da non vedere assolutamente nulla anche con gli occhi spalancati sott'acqua e che facesse così più caldo dentro che fuori. Il resto è presto detto. Dopo un po' che facevo il morto e mi lasciavo cullare dalle onde, basse e continue, ho provato ad alzarmi in piedi e, orrore, NON TOCCAVO. La morsa ai fianchi dell'adrenalina e l'istintivo annaspare mi hanno riportato alla realtà: mentre la testa finiva sott'acqua, come un turacciolo male calibrato, ho visto la direzione della linea di costa, vicina — ma lontanissima — per un fesso gonfio di alcool in notturna che non sa nuotare. NO PANICO no panico è quello che ho pensato mentre il terrore mi voleva fare gridare, nopaniconopanico mi sono ripetuto quando ho fatto l'unica cosa che so fare in acqua. Appena sono riuscito a tirare fuori le labbra dall'acqua, con uno sforzo cosciente (mentre i piedi come impazziti tentavano di tenermi a galla) ho provato a svuotare i polmoni e inspirare più che potevo, le labbra serrate dalla paura, i denti che scricchiolavano gli uni contro gli altri, e a tuffarmi sott'acqua, in direzione della costa. Le braccia forzatamente lungo i fianchi, i piedi a cui cercavo di dare un ritmo "efficiente".
Senza volere, in maniera automatica, trattenendo quel poco di aria viziata dentro di me, ho pensato, in un lampo, tutto insieme, al Guzzi che non avevo comprato, alle cose non dette a Sandrina, al fatto che ero ancora litigato con mio padre e anche — sembra buffo ma è così — a chi avrebbe trovato quella vecchia rivista porno sotto i maglioni. Tutto questo succedeva in automatico, "dietro" non dentro la mia testa. Ero dolorasamente cosciente dello sforzo dei polpacci, duri, del cerchio intorno ai reni, doloroso, ai polmoni che ormai erano quasi vuoti, all'acqua salata, cattiva, terribile che mi stava filtrando in bocca. Con un ultimo sforzo di braccia mi sono buttato verso l'alto, verso l'aria, sono emerso quasi urlando e inghiottendo aria fresca e schizzi di acqua, gli occhi con le pupille spalancate da una paura di un intensità mai provata che cercavano la costa (le uniche luci visibili, quelle del chiosco, vicine! molto più vicine). Ricadendo scomposto sott'acqua, quasi non volendo ho colpito con un piede la sabbia, e mi sono reso conto che potevo alzarmi in piedi, che oramai ero in un metro e mezzo circa di acqua.
Ve lo sto raccontando perchè tutti questi ricordi io li avevo rimossi. Completamente. Non lo avevo raccontato a nessuno quella sera e lo avevo dimenticato fino a ieri notte. Ieri notte. Ieri notte mi sono svegliato all'improvviso, stavo sognando di soffocare e il risveglio insieme all'ossigeno mi ha riportato — freschissimi — i ricordi del mio annegamento, della Sandra e del Guzzone, e seduto nel letto, nel silenzio delle 5 di mattina qui a Monza mi sono reso conto che mi sono sentito più vivo in quel minuto e mezzo in cui stavo morendo piuttosto che in questi vent'anni di vita da morto anticipato. La mia Epifania salmastra.
Il disegno è di Andrea Pazienza