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Intervista a Pietro Arienti, autore di testi sulla lotta partigiana e sulle deportazioni: «I ragazzi col braccio teso messi di fronte a fatti reali, terribili, e documentati, cambiano idea, restano stupiti, perché  il “mostro” è stato proprio sull’uscio di casa, in Brianza. Ad Albiate, a Seregno, a Monza»

Ha scritto “La Resistenza in Brianza. 1943-1945” nel 2012, “Monza: dall'armistizio alla Liberazione (1943-1945)” nel 2015, prima ancora “Dalla Brianza ai lager del Terzo Reich. La deportazione verso la Germania nazista di partigiani, oppositori politici, operai, ebrei. Il caso dei lavoratori coatti” nel 2011, sempre con Bellavite Editore. Pietro Arienti, come molti, pensava che la Resistenza in Brianza fosse “solo” una serie di fatti episodici slegati, ma ha scoperto che era un movimento organizzato, attivo e da raccontare. Anche oggi, che i giovani non hanno nemmeno i nonni che gliene possono accennare. Ci sono le scuole e ci sono i fatti documentati, anche a due passi da casa, che dimostrano che “certi orrori” non sono né di destra né di sinistra ma contro i diritti umani.

Come e quando nasce il suo interesse per il periodo storico della Resistenza?
Come tutte, o molte, le passioni, anche la mia ha il suo lato irrazionale. La storia, in particolare il periodo della Seconda Guerra Mondiale, mi è sempre piaciuta, fin da studente. Alla narrativa affiancavo saggi su questi temi. A metà degli anni '90, il Circolo Culturale Seregn De La Memoria, di Seregno, mi ha coinvolto nella pubblicazione di un libro proprio sulla Resistenza nel territorio brianzolo, mi sono così reso conto da un lato che scrivere era una cosa che mi riusciva, e dall’altro che c’era un grosso “buco” nella storia locale proprio in corrispondenza della Resistenza. Un “buco” che ho deciso di contribuire a riempire. Così sono diventato un appassionato esperto di Resistenza in Brianza.

Molti sono ancora convinti che non sia successo nulla in Brianza in quel periodo.

E cosa ha “scoperto”?
Mi sono “gettato” sul tema convinto che da queste parti sarebbero emersi solo casi episodici, mi sono accorto che c’era una importante e complessa storia della resistenza locale da raccontare anche se molti sono ancora convinti che non sia successo nulla in Brianza in quel periodo.

A farmi scoprire tutto ciò è stato un testimone che ho incontrato mentre scrivevo uno dei primissimi libri raccogliendo testimonianze di seregnesi che erano stati al fronte nella seconda guerra mondiale. Mentre scrivevo di fronte africano, greco e russo, pensavo di dedicare un capitolo alla Resistenza. È venuto lui da me, era un partigiano, e mi ha raccontato una organizzazione ben strutturata, con gente da fuori che arrivava apposta. È così che mi è venuto il dubbio che la Resistenza brianzola fosse molto più organizzata.

Quanto organizzata? E come?
L’8 settembre del 43 era stato uno shock per tutti ma certo non tutti sono diventati come i partigiani di montagna. La pianura è stata subito un’area particolarmente presidiata da tedeschi e dalle forze neofasciste e fino al gennaio del 1944 c’erano solo gruppi isolati di partigiani, sparsi in paesi vari, spesso attorno a vecchi antifascista. Il cambiamento è avvenuto con la creazione di strutture come le SAP, le squadre armate partigiane, che hanno anche dettato in un certo senso la linea indicando come si poteva essere un partigiano in pianura. Era diverso dalle zone di montagna, qui non si tagliavano i ponti con tutti, scomparendo, ma si continuava a condurre una vita normale pronti ad essere chiamati all’azione quando serviva. Poteva essere per la diffusione di volantini o per un disarmo, per un recupero di armi o anche per azioni militarmente di rilievo.

 

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A Seregno, c’erano due squadre di 4 o 5 persone, ad esempio, e così similmente in altri piccoli paesi di erano formati simili distaccamenti che facevano riferimento ad un capo di brigata. Questo capo nella maggior parte dei casi si dava alla macchia e riceveva una sorta di “bollettino” delle azioni compiute da ogni distaccamento. Dai documenti si vede un crescendo delle azioni a partire dal marzo del 1944 fino all’ottobre dello stesso anno in cui c’è stato un culmine, un calo in inverno e poi un altro crescendo nella primavera del 1945.

A metà anni '90, non era così difficile trovare delle testimonianze orali, oggi lo è

A proposito di documenti, focalizzandosi su un’area geografica così circoscritta, ha avuto difficoltà nel reperire informazioni e testimonianze?
All’inizio del mio lavoro di ricerca e approfondimento, a metà anni '90, non era così difficile trovare delle testimonianze orali, oggi lo è. Per completare i racconti e approfondire gli spunti dei partigiani incontrati sono andato alla ricerca di documenti, li ho trovati presso l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, a Milano, e presso la Fondazione ISEC, a Sesto San Giovanni, oltre che in molti archivi comunali. Ho trovato molti documenti probabilmente mai toccati dal 1945 ma ricchi di informazioni preziose soprattutto per il libro relativo alla deportazione. Utile anche sfogliare alcuni archivi parrocchiali, a quei tempi venivano stilati a mano dai sacerdoti delle specie di diari, in alcuni vi ho trovato cronache di episodi anche civili, racconti di trattative tra tedeschi e partigiani avvenute nei dintorni della parrocchia, ad esempio, e simili fatti.

Tre eventi più significativi accaduti durante la Resistenza e il 25 aprile 1945 che troveremo nei suoi libri?
L’attentato dinamitardo sventato nell'agosto del 1944 sulla linea ferroviaria Monza-Como, 2 Km a nord-ovest di Seregno. Erano impaccate sette cariche esplosive accanto al binario. La colonna tedesca fermata ad Arosio il 27 aprile, in centro, era di mezzi. I partigiani, facendo credere di essere in molti, mandarono staffette a chiedere rinforzi. Una venne uccisa, Annibale Redaelli, ma la trattativa andò a buon fine. I partigiani agirono con notevole coraggio, per alcuni con incoscienza, ma i tedeschi si arresero, anche se solo il mattino del 28. E poi c’è la fucilazione che forse fece più "rumore" in Brianza, visto che la vittima è un famoso gerarca, Roberto Farinacci, il ras di Cremona. Era stato catturato il 27 aprile durante un'azione particolarmente movimentata che nel mio libro ho descritto passo per passo fino alla sua morte.

Non è più successo che dei cittadini mostrassero un sentimento civile così forte

C’è un aspetto della Resistenza in Brianza che lo ha colpito?
Durante le mie ricerche ciò che più mi ha sorpreso è stato il forte sentimento civile, il coraggio con cui tante persone si sono messe in gioco in modo del tutto disinteressato, correndo consapevolmente un grosso rischio. Penso che non fosse mai accaduto prima di quel periodo, di certo, dopo, non è più successo che dei cittadini mostrassero un sentimento civile così forte. Questo mi ha fatto riflettere.

Oggi come si può parlare di Resistenza e Seconda Guerra Mondiale a giovani che forse non hanno nemmeno dei nonni che le hanno vissute? Che rischi si corrono?
Una ampia d​iffusione di questi temi può essere fatta solo grazie alle scuole che possono essere in parte affiancate da associazione come l’ANPI. Credo però che debba essere la scuola a farlo, in primis, e in modo organizzato, non affidandosi alla volontà e alla voglia di singoli docenti. C’è però il rischio, oggi più che mai, di essere “fraintesi”. Mi spiego: la Resistenza è stata da subito strumentalizzata dal punto di vista politico, quindi anche all’interno delle scuole chi ne parla rischia di essere preso per una persona che fa propaganda. Chi non ne parla, però, riduce e minimizza l’importanza di un periodo e di alcuni valori che sono proprietà di tutti. Non di un partito o di uno schieramento politico particolare.

Oggi seleziono molto le collaborazioni con le scuole del territorio, partecipo ad incontri solo se sono all’interno di un più ampio progetto e i ragazzi arrivano preparati ed interessati. Altrimenti resta un incontro per fare un’ora buca. Esperienza molto positiva è stata quella presso il Liceo Enriques di Lissone, lo scorso anno, ed era infatti inserito in un progetto dedicato.

 

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Pietro Arienti

 

Quali valori della Resistenza, oggi, è possibile attualizzare e “isolare” dalle diatribe politiche?
È chiaro che il n​azismo e il fascismo sono totalmente fuori dalla società degli uomini, adottano il razzismo spinto in modo regolare, praticano il genocidio e la tortura come metodo sistematico, praticano la privazione della libertà. Tutto ciò non appartiene e non può appartenere ad alcun partito, sono cose che violano i diritti umani e non possono essere né di destra né di sinistra, sono cose disumane.

Quelli che mi preoccupano di più sono gli appartenenti alla “massa grigia”, che sono poi la maggior parte, e che sono il risultato di un fallimento della democrazia o di chi l'ha gestita.

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Oggi si parla di estrema destra, di fascismo e di razze, anche molti giovani riprendono questi concetti. Ritiene pericolosi tali movimenti, nei fatti, oppure sono solo parole?
Personalmente vedo due “categorie”. C’è una piccola parte che crede nel fascismo, si dichiara fascista consapevolmente. A queste persone non si può cambiare la testa ma non le ritengo pericolose, più che altro perché, se mai facessero qualche cosa, sarebbero perseguibili dalla legge visto che è contemplato dalla nostra Costituzione il reato di apologia di fascismo. Quelli che mi preoccupano di più sono gli appartenenti alla “massa grigia”, che sono poi la maggior parte, e che sono il risultato di un fallimento della democrazia o di chi l'ha gestita. Queste persone, deluse, pensano di subire ingiustizie e cominciano a pensare che usare la forza e determinati metodi possa essere per loro risolutivo. Ecco quindi che danno credito a realtà come Forza Nuova e Casa Pound. Sono una massa non controllabile e ignorante, l’unico rimedio, il vaccino, è la conoscenza.

Nei suoi incontri con i giovani del territorio che interesse riscontra e che reazioni a temi come quello della Resistenza e del fascismo?
I giovani che incontro nelle scuole sono spesso preparati e consapevoli, io cerco di raccontare loro fatti reali e vicini. Che nella Villa Reale appendevano uomini nudi mettendoli anche nell’acqua gelata, che strappavano unghie e facevano esecuzioni. Questo perché i giovani hanno la tendenza a restare nel branco assumendo atteggiamenti come quelli del fare il braccio teso senza chiedersi perché. Mussolini resta una sorta di icona, come fosse un personaggio di un telefilm a cui fare riferimento. Messi di fronte a fatti reali, terribili, e documentati, cambiano idea, restano stupiti, perché fino a quel momento non avevano mai considerato il fatto che il “mostro” è stato proprio sull’uscio di casa, in Brianza. Ad Albiate, a Seregno, a Monza... Quando se ne rendono conto cominciano a reagire in modo diverso a certi modi di fare e slogan che gli vengono proposti.

 

La Resistenza in Brianza
1943-1945

Prefazione
Raffaele Mantegazza

Quando mio padre aveva 11 anni, sua mamma (mia nonna) era malata. Non era una malattia grave, solo un piccolo nodulo, un tumore benigno alla gola che ora si chiama comunemente polipo, che però le dava molto fastidio. L'unica cosa che dava sollievo al dolore alla gola era una zolletta di zucchero con un po' di limone alla sera: questo le permetteva di deglutire senza sentire il bruciore del male alla gola. Un giorno, durante una perquisizione, alcuni fascisti entrarono in casa e si portaro­no via tutto quello che aveva un po' di valore. Un giovane fascista, un ragazzo di 20 anni, trovò il cartoccio con cinque zollette dentro. Il giovane fascista rivendicò quel­lo come il suo bottino, ma mio padre, 11 anni appena, si oppose e disse: "Non le puoi portare via, sono di mia madre, per curare il suo mal di gola!". Il fascistello, prima di andarsene, gli diede una sberla e mio padre cadde lungo e disteso a terra. Come si fa a raccontare a "chi non c'era" il fascismo, l'antifascismo, la Resistenza? Nella mia esperienza personale, io non ho vissuto quell'epoca, ma se mi chiedono chi sono i fascisti io posso rispondere che sono quelli che hanno dato una sberla a mio padre e hanno rubato lo zucchero a mia nonna. I fascisti sono quelli che hanno portato via una zolletta di zucchero ad una giovane donna che aveva un piccolo tumore, ed il fascismo per me ha sempre il sapore di quella dolcezza negata, il sapore amaro del mal di gola di mia nonna o il sapore bruciante della guancia di mio padre che ha preso una sberla dal giovane squadrista.

Ma tutto questo, per quanto emozionante, non basta; anzi, rischia di essere fuor­viante; perché il fascismo non è solamente un ricordo personale, una sensazione o peggio una emozione; perché il rischio di ridurre il fascismo a un ricordo emotiva­mente colorato è quello di ritrovarsi poi di fronte chi ha altri ricordi e altre emozio­ni e chiede dignità di trattamento, chiede che tutte le sberle siano considerate allo stesso modo, chiede che "tutti i morti siano uguali", sia le vittime che i carnefici, resi uguali dal nero velo della tomba. E allora i ragazzi di Salò "son ragazzi..." secondo l'espressione di una trasmissione preserale, così come "son ragazzi..." i partigiani, e tutti sono la stessa cosa nell'aria fritta della conciliazione nazionale. Lasciare solo alle emozioni e ai ricordi personali il compito di parlare del fascismo e della Resistenza è rischioso prima di tutto perché coloro che hanno vissuto quelle emo­zioni e ci raccontano quei ricordi stanno purtroppo lentamente lasciandoci e anche perché l'emozione è quanto di più facilmente strumentalizzabile; anche il revisioni­smo storico vive di emozioni; false e omicide ma pur sempre emozioni.

Ben venga allora la ripubblicazione di questo libro di Pietro Arienti; perché è un libro di storie e di storia, che si costruisce mediando l'inevitabile dimensione affet­tiva con il rigore della ricostruzione storiografica, estraendo il discorso sulla Resistenza dalle secche della retorica e dell'emozione pura per immergerlo nel bagno del rigore scientifico senza però fargli perdere nulla della sua capacità di indi- gnare il lettore (e Arienti è in questo ottimo allievo di Primo Levi: "deve indignarsi il lettore, non lo scrittore"). Noi viviamo in un'epoca nella quale per la prima volta nella storia una specie animale, quella umana, ha costruito la tecnologia che può distruggere la vita sul pianeta. Se prima, nelle guerre, erano i villaggi e le grandi città ad essere coinvolti, oggi ci va di mezzo tutta la Terra. Tutto ciò ci fa capire che siamo in una situazione inedita: battaglie, guerre e morti ci sono sempre stati, ma non i campi di sterminio e la bomba atomica, il 90% di civili morti in una guerra dopo il 1945. Tutto questo ha bisogno di conoscenza, di rigore scientifico e di sto­ria oltre che di emozioni; ha bisogno di ricercatori attenti ed emozionati ma che non rinunciano a raccontarci i fatti che stano dietro gli affetti. Perché tutti abbiamo biso­gno di differenziare uno schiaffo dall'altro; di capire perché quegli schiaffi sono stati dati; di cogliere lo sfondo di senso che ha accolto la violenza dei prepotenti e le rea­zioni degli umiliati; e soprattutto di capire e conoscere perché quello schiaffo non venga più dato, perchè tutto questo non possa accadere più.

Raffaele Mantegazza è docente di "Pedagogia interculturale e della cooperazione" presso la Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Milano Bicocca. È particolarmente esperto ed interessato nella pedagogia dell'espropriazione nei totalitarismi con particolare attenzione ai campi di sterminio nazisti. Nell'ambito di questo filone di studio ha dato alle stampe i volumi L'odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell'annientamento e Le strisce dei lager. La Shoà e i fumetti.

 

 

Introduzione 

Le motivazioni che ancora giustificano una ricerca sulla Resistenza, dopo oltre sessant'anni dal suo epilogo, sono molte e diversificate.

Innanzitutto è sempre necessaria una puntualizzazione sulla Resistenza stessa, di fronte all'incalzante revisionismo storico, spesso usato in senso strumentale. Da qui nasce la necessità di dare un valore assoluto al fenomeno della Resistenza, come moto di ribellione ad un regime dittatoriale prima, e come promozione di una nuova società basata sui principi della democrazia poi. L'Italia che nacque dopo la fine della guerra era, inequivocabilmente, figlia della Resistenza, la democrazia italiana vide in quei momenti nascere le sue radici. Ecco perchè la festa della Liberazione del 25 aprile dovrebbe avere il connotato di vera festa nazionale in cui si riconosca­no tutti coloro che si professano democratici a qualunque partito appartengano, per­chè i principi basilari della civiltà siano rispettati e protetti dai nuovi pericoli che possano presentarsi, sia che essi arrivino da destra, come dal centro, come da sini­stra, beninteso.

Oltre a questo, un altro motivo di spinta a questa ricerca è stato il realizzare come mancasse una pubblicazione che trattasse nel suo complesso il fenomeno resisten­ziale in Brianza. Esistono, è vero, vari studi locali che sono però concentrati su ciò che accadde nelle singole cittadine; si tratta comunque di materiale prezioso, utiliz­zato per contribuire a dare una visione organica della Resistenza in questo territorio.

Questo intento permette innanzitutto di poter rievocare e valorizzare, cercando di ricostruirli con il maggior rigore storico possibile ed epurandoli dalle leggende e dall'apologia, episodi importanti già noti anche se forse limitatamente al luogo dove sono avvenuti e dintorni. Mi è sembrato giusto portare a più larga conoscenza, fatti che hanno tale spessore da poter essere citati a ragione come esempi di Resistenza maggiore. Entrano in questa considerazione le azioni in Brianza del gappista Alberto Gabellini, gli attacchi al campo volo di Arcore, lo scontro insurrezionale sulla pro­vinciale Como-Bergamo, fra Bulciago e Rovagnate, dove rimasero sul terreno di battaglia 35 partigiani della Brigata Puecher.

Accanto al conosciuto, ricostruito, riordinato ed approfondito, ecco le notizie inedite, gli aspetti e gli eventi ricoperti dalla polvere del tempo già iniziatasi a depo­sitare appena terminata la guerra. Il tutto contribuisce alla fine, a dare corposità e una misurabile dimensione alla Resistenza in Brianza.

Rientrano inoltre nella grande e tragica storia italiana di quel periodo, i fenome­ni della deportazione nei campi di annientamento dai nomi terribili di Mauthausen, Flossenburg, Buchenwald. Molti paesi brianzoli annoverano uno o più caduti, ucci­si nelle maniere più crudeli in quei posti infernali e magari pochi lo sanno e pochi li ricordano, togliendo ai giovani l'esempio di quelle vite. E così anche l'odio razzia­le da cui forse la Brianza, terra di civiltà antica, si credeva esente, non toccata dalla persecuzione contro gli ebrei, ritenuta cosa lontana, ma che in queste pagine è docu­mentata.

Si ha, quindi, la visione di una Resistenza che, come si è detto, ha avuto spunti di grande coraggio creando preoccupazioni agli occupanti e ai loro alleati pur rima­nendo, certo, nel solco di un movimento provinciale e quindi anche dipendente da ciò che si decideva ed avveniva nei centri di comando. Una Resistenza che, mal­grado le difficoltà di sviluppo in un ambiente tradizionalmente moderato, poco incline alla ribellione e nonostante i problemi di organizzazione e comunicazione interna ha saputo guadagnarsi una sua dignità morale, politica e militare. È questo il messaggio che gli oltre duecento caduti brianzoli della Resistenza, gli oltre duecen­to deportati fra sopravvissuti e deceduti, l'imprecisato numero dei combattenti e dei patrioti, e l'autore, vogliono comunicare a chi vorrà leggere queste pagine.

 

Per gentile concessione degli autori e dell'editore Bellavite