Una mostra a Seregno per mettere insieme le risorse dell’arte con l’impegno politico. Il richiamo ai principi e ai valori democratici
A Seregno, per il “mese della cultura”, la Casa della Sinistra ha organizzato per il secondo anno consecutivo una manifestazione intesa a mettere insieme le risorse dell’arte con l’impegno politico svolto sul piano del richiamo ai principi e ai valori democratici: lo scorso anno per celebrare i settant’anni della conquista del voto da parte delle donne in Italia, quest’anno per proporre una riflessione sui primi tre articoli della Costituzione repubblicana attraverso opere e istallazioni di artisti operanti sul territorio, realizzate con tecniche e linguaggi diversi e che sono state esposte nello spazio del Pozzoli Village.
Si sono mobilitati artisti di diversa formazione, accomunati ai soci della Casa della Sinistra dall’intento di promuovere e condividere conoscenze, riflessioni e sensibilità nei riguardi di tematiche fondamentali come quelle relative ai diritti che la democrazia deve garantire ed estendere. Un impegno, questo, che per essere autentico comporta anche lotta e opposizione sul piano strettamente politico, tanto che alcuni di questi artisti sono parte integrante della Casa della Sinistra di Seregno e della sua storia; altri sono “compagni di strada”, sempre pronti a dare il loro contributo a manifestazioni o eventi significativi, partendo dal bisogno di dare un significato e un valore sociale al proprio lavoro. Tutti hanno all’attivo diverse mostre e premi, in Italia e in qualche caso anche all’estero.
Ho provato a discutere un po' con alcuni di loro del legame tra arte e politica, tanto più che il compito che si sono assunti in questa mostra non mi sembrava dei più facili: un conto è abbandonare la celebrazione del potere per “riflettere sulla realtà dei proletari e dei reietti”, come dice Santiago Sierra; altro conto, mi pare, è trovare ispirazione in un testo che afferma dei principi, rappresentare attraverso i mezzi delle arti visive la realtà o i limiti della asserita dignità del lavoro come fondamento della nostra repubblica, sostenere l’inviolabilità dei diritti di ogni essere umano e l’uguaglianza di tutti al di là delle distinzioni di fatto. Obiettivo molto alto e complesso, che ha trovato una realizzazione interessante in molte delle opere esposte: delle quali non intendo in alcun modo farmi interprete e critica, ruoli per i quali non ho la necessaria competenza, ma che mi piace segnalare da semplice spettatrice, fruitrice di un’occasione di confronto immediato con gli esiti di un lavoro che, pur in un territorio non molto ricettivo, ha una sua continuità e autenticità.
Ho trovato due principali attitudini emergenti dalle opere esposte: quella della denuncia e quella dell’auspicio. Per la prima, ho apprezzato, ad esempio, le belle uova in legno (cedro del Libano, mi dice l’autore), lacerate e strette tra le spire di un filo spinato, realizzate da Gigi Renga: immagini, per me, delle potenzialità racchiuse in quei primi articoli della nostra Magna Charta, sempre magnificate, eppure non solo ancora irrealizzate, ma forse sempre più soffocate da vincoli e interessi soverchianti. Renga è un artista sardo emigrato in Lombardia, dove si è formato e opera da lunghi anni come scultore. Mi dice che per lui è inconcepibile che l’arte non si occupi delle sofferenze dei più deboli, che si limiti a una ricerca estetica, che non sia anche “politica”.
“L’arte che non si oppone all’ingiustizia, come per altro il popolo che non si ribella, è connivente. Perció bisogna parlarne, denunciare, scuotere l’indifferenza: anche se non dovesse riuscire nel suo intento, è un preciso dovere dell’artista quello di provare a raggiungere le coscienze”.
Anche se per farlo, sei costretto a rincorrere l’attualità?
“Sí, succede: ho pensato, ad esempio, di dover modificare la mia rappresentazione dell’emigrazione, che si fondava sulle immagini più intense del dramma dei naufragi, dato che oggi c’è un nuovo elemento che la caratterizza, quello dei muri. Certo che si deve far riferimento all’attualità, è giusto cosí, non importa se in futuro queste opere non dovessero essere più attuali!”
In verità, un’opera come quella che sopra ho descritto, che fa ricorso a un simbolo di carattere universale, può essere sempre attuale, anzi acquista significato anche dal contesto in cui è inserita, non legandosi in modo diretto ed esplicito , come altre di questa mostra, al tema della Costituzione.
Ma è cosí importante, e, soprattutto, giova all’espressione artistica il riferimento preciso, univoco, ai temi “politici”?
Di questo genere era il contenuto della performance con cui la mostra è stata inaugurata, lo scorso 20 maggio, intitolata Unconstitutional Constitution: gli articoli fondamentali della costituzione, scritti sul corpo di Alex Sala, sono stati cancellati a "COLPI DI SPUGNA", mentre la voce dell’artista a tratti esprimeva con rabbia una protesta, che culminava nel gesto con cui la bandiera europea veniva gettata a terra tra le ciotole d’acqua in cui si era dissolto l’inchiostro del testo. Con questo linguaggio, questa “azione artistica”, l’ autore ha inteso rappresentare “il disfacimento e la cancellazione dei diritti civili e delle conquiste sociali rivendicate ed ottenute dai cittadini italiani dal secondo dopo guerra..” a causa, a suo dire, delle “strutture sovranazionali ed antisovraniste” che “ stanno lentamente e silenziosamente restringendo le libertà personali e quelle di libera espressione garantite dalla nostra costituzione”. Confesso, mi perdoni l’artista, nonchè l’eventuale lettore che ne condivida il linguaggio, che il termine “sovranista”, col suo rispettivo contrario, provoca in me attacchi di allergia potentissimi, ma lo riporto fedelmente, non solo perchè riconosco che un problema esiste nel coniugare le istanze delle costituzioni dei singoli paesi con quelle delle istituzioni sovranazionali, ma soprattutto perchè è proprio dalla mia reazione al suo uso che misuro la eccessiva vicinanza di questo genere di interventi all’universo della politica, che suscita adesioni o rifiuti piuttosto che sguardi che vadano al di là della realtà in cui siamo immersi: come forse dovrebbe fare l’arte. Rifletto tuttavia su quel che pensa Alex Sala in merito a questo, e che pure mi sembra plausibile:
“Credo che le azioni artistiche debbano essere una rappresentazione del rapporto con il potere senza diventare un atto di contestazione retorico o banale ma anzi rappresentare riflessioni ed emozioni che un artista prova nel confrontare la propria vita e la propria sensibilità con il potere”.
Ecco, si puó alimentare il rapporto tra arte e politica a partire dal confronto critico con il potere oppure facendo appello alla sensibilità dei singoli, nell’intento di modificare a livello collettivo gli atteggiamenti più diffusi, di accrescere l’adesione ai valori cui la politica dovrebbe ispirarsi.
Un modo poetico di rappresentare la negazione dell’uguaglianza fra gli uomini nella tragica realtà del nostro tempo mi è sembrato quello adottato da Annamaria Fino, insegnante di educazione artistica, che da molti anni pratica l’incisione nelle sue diverse forme. Per questa circostanza, ha rivestito due colonne uguali e parallele, opposte l’una all’altra a una certa distanza, con due spirali di carta, scritta l’una in caratteri latini, l’altra in caratteri arabi. Se nella prima era a tratti leggibile il testo dei primi articoli della Costituzione, il testo della seconda rimaneva per noi muto e indecifrabile, non fosse stato per il filo rosso che legava entrambi alle chiazze di metallo fuso gettate al suolo fra l’una e l’altra ed evocanti il mare dei mille naufragi che separa “noi” da “loro”, o meglio, che le unisce, appunto, con un legame sanguinoso: noi con le nostre affermazioni di civiltà che rimangono lettera morta, loro con le loro storie drammatiche legate ad aspirazioni di libertà e uguaglianza negate e respinte.
Dell’approccio che ho definito, invece, “di auspicio” fanno parte opere come quelle di Rita Bagnoli, ceramista e maestra d’arte, operante a Carate, che ama e sperimenta anche materiali poveri e riciclati come la carta: è a questo materiale che ha fatto ricorso, non a caso, costruendo tante scatoline, una per ogni articolo della Costituzione, visto che questa è per lei un’opera “di cui occorre nuovamente impossessarsi, che occorre far diventare vita quotidiana, non lasciarla lí e dimenticarla. Cosí riempiamo ogni scatola perchè ciascuno se ne porti via un pezzo, rompa il grande areogramma che rappresenta la nazione nella sua voce più nobile e se ne porti un pezzo in tasca, lo faccia vivere tra la gente, nelle strade, nelle case. Un'opera viva, una memoria che cammina su gambe nuove, che è capace di parlare e costruire ancora.”
“Ciascuno”: è forse questa la parola chiave per distinguere il discorso dell’arte, che parla al singolo, da quello della politica, che parla al e del collettivo? Ne è convinta Giovanna Camera, fotografa con una formazione internazionale: per lei, quello dell’artista che vuole incidere sul piano proprio della politica, sul cambiamento della società, “è un tentativo, che si rivolge alle singole persone, cercando di renderne critico lo sguardo. Non si puó indottrinare, bisogna toccare le coscienze attraverso la propria autenticità. Il risultato non dipende necessariamente da un’eccelsa qualità dell’artista, anche chi è ancora in cammino nella sua ricerca artistica puó dare un contributo importante, purchè si sottragga all’omologazione”.
Quella che Giovanna Camera presenta è un’opera di “scrittura visiva”, alla maniera, mi dice, di Nathan Lyons: “Si tratta di un percorso di accostamento di immagini che, per analogia e contrappunto, narrano di persone che si intrattengono tra di loro in una atmosfera di calda e intima cordialità. Qualcosa le collega, le accomuna e le tiene unite. Forse si scambiano qualche verità della loro esperienza umana? Si sostengono nella fragilità e nell’incompletezza? Ma forse è soltanto un momento, e l’uomo ritorna poi nella sua solitudine...”.
La dimensione sociale in quanto data o asserita non solo non è sufficiente, ma puó divenire illusoria e falsamente consolatoria senza la consapevolezza e l’impegno del singolo. Tuttavia è proprio questa dimensione che riappare in altre opere: come quella di Antonella Gerbi, laureata in scultura e in arti visive e dotata anche lei di una formazione internazionale. La sua scultura “vuole indagare prima di tutto il concetto di diversità ed uguaglianza. Noi siamo erba, uniti in fascine volontariamente o meno all'interno della nostra società. Cresciamo nel gruppo, nel lavoro, come steli leggeri che si modificano per sollecitazione esterna o volontà interna, come ben chiarisce il nostro primo articolo della costituzione. Eppure anche se tanti siamo diversi... Uguali di fronte alla legge come dovremmo, rivendichiamo la nostra diversità di persone, gli artisti in prima fila, e la nostra uguaglianza come cittadini. ..”
Attorno alla diversità, e alla libertà, degli artisti, non più legati alla celebrazione del potere come un tempo sono stati soprattutto gli scultori, Antonella, che dice di non sentirsi politicamente impegnata in modo diretto, ma di voler soprattutto essere, come ogni artista, “un descrittore di umanità e della realtà che lo circonda”, propone una riflessione direi decisiva, quella della rilevanza sociale dell’arte, ossia: ma sarà vero che l’arte, nella sua indipendenza, è un pericolo per il potere, o non sarà che, per cosí dire, ( ma è una traduzione mia), “nessuno se la fila” perchè tanto “è solo arte”?