Voci e storie dal Sud. Tra voglia di riscatto e dannazione, la letteratura dello scrittore nell'intervista di Vorrei
Non sarà forse il caso oggi di parlare di letteratura meridionale e/o meridionalistica, ma è innegabile che anche nel ventunesimo secolo ci siano storie e voci che dal Sud ci raccontano la sua specificità, la sua irriducibile complessità e diversità, sia essa legata al degrado indotto dall’irruzione dei traffici criminali globali nell’antico tessuto della mala società o alla persistenza quasi miracolosa di una cultura tradizionale appartata e un po’ sognante e visionaria. Nel primo caso, ci sono scrittori che per amore del proprio paese scelgono di rappresentarne i mali mettendone spietatamente a nudo le piaghe, spingendo la denuncia fino a non consentire nessuna via di fuga: questa è la via che ha scelto, ad esempio, Roberto Saviano. Lo ha detto lui, in una sua intervista televisiva: io non l’ho ancora letto. Non ho prevenzioni nei suoi confronti, anzi, ma ho una certa allergia verso i best seller, aspetto che passi l’ondata di popolarità planetaria per poterli scegliere libera dalla pressione mediatica. Se mi è permessa una parentesi, come un breve lamento su un dente che duole, vorrei dirlo qui: che il successo di un libro e la sua capacità di raggiungere un pubblico numeroso debbano per forza essere sospinti dai grandi media è uno degli aspetti più desolanti del nostro panorama culturale; gli incontri con gli autori sono affollatissimi quando questi sono anche noti come personaggi televisivi, ma il dubbio che molta parte della folla sia costituita da curiosi dello star system più che da lettori, appare legittimo. Dobbiamo ringraziare la televisione perché riesce a trasformare in celebrità anche qualche scrittore o dolerci per la sua schiacciante predominanza sulla parola scritta? La risposta dipende dall’ottimismo del momento o del singolo…
Chiusa la parentesi, e tornando ai diversi modi di raccontare oggi il Sud, lo scrittore che mi ha reso possibile accostarmi a una realtà dolorosa e ustionante come quella dominata dalla camorra è stato Andrej Longo, che è nato a Ischia e che racconta di quella realtà a partire dai ragazzi che a Napoli vivono in contesti degradati, coinvolti o anche solo sfiorati dalla presenza pervasiva del crimine organizzato: perchè di questi ragazzini ne ha “conosciuti tantissimi, sia attraverso le scuole, sia lavorando nei ristoranti e nelle pizzerie”. Ha già superato da un pezzo i cinquant’anni, Andrej Longo, ma conserva, direi, nonostante il nome principesco e letterario (“mio padre amava Guerra e Pace”), una certa aria da scugnizzo, col sorriso sempre pronto e dei modi semplici ed immediati: l’ho incontrato in due occasioni, la prima parecchi anni fa a Monticello, nel corso del festival “La passione per il delitto”, la seconda recentemente alle cene letterarie della Cascina di Mattia, a Cantù. In questa occasione ha letto alcuni suoi monologhi anche inediti che mi hanno ricordato certe pagine capolavoro di Edoardo, e che hanno messo in luce una sua grande capacità comunicativa, da uomo di teatro. Col cinema e il teatro in effetti ci lavora, come sceneggiatore: ha partecipato, ad esempio, alla sceneggiatura del celebre “Io speriamo che me la cavo”; ma ha lavorato anche come pizzaiolo, bagnino e cameriere, proprio per poter scrivere in libertà. Ha pubblicato diversi volumi di narrativa, ma due in particolare sono quelli che in modo più drammatico e incisivo raccontano i suoi uaglioni e muccusielli, ragazzi e bambini sempre a rischio di cadere, loro, nelle paranze della malavita: i titoli sono “Dieci” e “L’altra madre”, entrambi editi da Adelphi.
Duro, pietoso e inesorabile allo stesso tempo, il primo, uscito nel 2007 e insignito dei più prestigiosi premi letterari “settentrionali”, dal Bagutta al Chiara; costituito da dieci racconti, dieci storie che hanno per titolo ciascuna uno dei comandamenti, nell’ordine con cui tutti li conosciamo. Storie alle quali l’autore dice di aver associato solo in un secondo momento il comando o il divieto biblico: che suona talvolta drammaticamente paradossale o ironico rispetto a quelle storie, eppure rappresenta un rimando indispensabile alla coscienza, all’istanza morale che sola può ribellarsi al male. Perché a far sì che i protagonisti di queste storie non siano davvero del tutto perduti è proprio il fatto che in loro ancora l’umanità pretende di farsi strada, come sentimento e consapevolezza, come capacità di resistenza, come dubbio, come dolore e pietà. Eppure talvolta la realtà non dà loro scampo: come accade a Papilù, che è un “buono guaglione”, che cerca in ogni modo di stare lontano dai guai, perchè sa “come funziona” lì, dove comanda Giggino Mezzanotte, che tutti “lo portano in palmo di mano come a un Dio, perché una maniera o l’altra in tanti si abbuscano qualcosa per mezzo suo. Chi a spacciare, chi a nascondere la roba e chi le armi, chi a vendere il falsificato, chi a prendere una fatica in qualche cantiere o dentro alle imprese di pulizia”. Ma è proprio lui, lì, il titolare del primo comandamento, anche per Papilù: Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me.
Così il primo racconto di Dieci propone attraverso Papilù i protagonisti di tutto il libro, o meglio di tutta la scrittura più rappresentativa di Andrej Longo: ragazzi a rischio, che un contesto violento trascina e ingloba inesorabilmente distruggendone le possibilità di riscatto. Ragazzi che quando escono mettono al collo la piastrina di metallo, “che la tengono tutti qua, con scritto sopra nome e cognome, la data di nascita e il gruppo del sangue”. Ragazzi che per vincere la paura immaginano che basti non pensare a niente, intimidire gli altri, sfidarli con lo sguardo da duri fino a fargli abbassare gli occhi, fare “la faccia da malamente” e atteggiarsi come loro, tirar fuori il coltello senza esitazione; ragazzi che si fanno “uno scippo ogni tanto”, ma rimangono sconvolti di fronte a un vecchio mite che non chiede aiuto e non denuncia, ma non abbassa lo sguardo. Un turbamento profondo, questo, per un ragazzo come Molletta, che conosce solo i codici della prepotenza; e non sa con chi parlarne, né come parlare, di questa cosa che gli ha stravolto ogni certezza: perché “Prima mi credevo che tutto era facile, che tutto era semplice. Mi credevo che il mondo si divideva in due parti, quelli che abbassano lo sguardo e quelli che no. I fessi, che sono la maggior parte, e quelli tosti, quelli che si prendono il mondo perché non hanno paura di niente. Invece adesso non è più così. E io non so che devo fare. Non so cosa pensare.”
Qualcuno con cui parlare sarebbe una salvezza: la solitudine di questi ragazzi è grande, di fronte ad adulti che nel migliore dei casi vivono lontani e si augurano che i figli non debbano vivere come loro e nel peggiore costringono le figlie a difendersi col coltello dalla loro ubriachezza lubrica. Protagonisti di storie terribili, ma piene della grande tenerezza che lo scrittore prova per loro: senza mai intervenire, perché tutti i racconti sono a focalizzazione interna, i protagonisti si raccontano in prima persona, ed è straordinaria la capacità di identificazione che l’Autore realizza attraverso il linguaggio, così diretto e concreto, così idiomatico, dove anche le preposizioni o spariscono o si fanno avverbiali, i verbi intransitivi diventano forzatamente riflessivi o transitivi, e il tempo e i dialoghi si snodano solo attraverso azioni e cose immediate, quotidiane, circoscritte al qui e ora più radicale. Perché, dice Andrej Longo, il racconto funziona così: “apri una finestra, vedi un pezzetto, e vai: si tratta solo di trovare il pezzetto giusto. Nel romanzo invece succede che trovi qualcuno che vuoi conoscere, ci fai un pezzo di strada assieme, segui il cambiamento ”.
Romanzo è “ L’altra madre” il libro più recente, nato quasi dieci anni dopo i racconti: “storia che nasce da un fatto di cronaca, dal racconto di un amico; nasce per parlare di Napoli e dei più deboli, gli adolescenti e le donne. Gli uomini hanno fatto già abbastanza danni intrallazzando con il potere”. Così ne parla l’autore: che questa volta si fa anche narratore esterno, ma, come dice lui, “voce vicina ai protagonisti, tutto al presente, come in un racconto orale”, e la lingua dei personaggi “verificata attraverso la recitazione”. E’ un romanzo di vite parallele, due ragazzi e le loro rispettive madri, donne sole dalla vita non facile, ma tenaci entrambe, e coraggiose, nella loro pur diversa condizione di vita: una storia che si snoda in due settimane, attraverso le quali i loro destini si incrociano drammaticamente.
Protagonista è Genny, un “buono guaglione” come Papilù, davvero un bravo ragazzo, che ha sedici anni e lavora come barmàn, è bravissimo a fare il caffè e soprattutto a portare il motorino in maniera acrobatica. Sua madre lavora in casa, cuce pantaloni, ma è malata e lui se ne prende cura, ha per lei attenzioni e raccomandazioni da adulto responsabile; e però è un ragazzo e vive a Napoli, e ha un problema con gli altri ragazzi attorno a lui, che già vanno con le nigeriane e i soldi non hanno voglia di guadagnarseli “faticando”: il solito problema, dimostrare che è grande e che non ha paura… Anche Tania è una brava ragazza, ha quindici anni e va ancora a scuola, non ha “grilli”, ma ha sogni e gusti precisi e a sua madre, che fa la poliziotta e ha una cicatrice vicino all’ombelico perché una volta “l’hanno sparata”, lascia bigliettini sul frigo per dirle “MAMMA, 6 UN MITO”. Anche lei ha un’amica che la spinge a sembrare più adulta, a “vestirsi a femmina” per andare ad una festa, e ad entrare in un negozio di lusso per fare acquisti… Così si incroceranno i destini dei due ragazzi e, per conseguenza, delle loro madri. Ma a questi destini Longo vuole concedere un’altra occasione: se lo meritano, sembra dirci, devono farcela, almeno qualcuno, in forza del bene che ha dentro, deve farcela. Ne ho parlato ancora con lui via mail:
A Genny, come agli altri tuoi giovani protagonisti, si sente che tu vuoi bene. Li conosci da vicino, non sono un fenomeno sociologico, ma persone vere: in loro vedi quello che c’è di buono, le loro possibilità di riscatto. È così?
La verità è che questi ragazzi, anche quelli delle più lugubri periferie napoletane, sono simili a tutti gli altri loro coetanei. E come tutti gli adolescenti hanno soprattutto bisogno di amore, di attenzione, e di essere accettati. L’emarginazione ( al pari dell’emarginazione che per esempio si verifica nelle banlieues francesi o belghe o tedesche) porta inevitabilmente alla ricerca di altre forme di compensazione. La delinquenza (soprattutto quella camorristica) è una di queste, perché ti fa sentire importante e accettato. Riempie un vuoto che i genitori e la società non sono riusciti a riempire.
Ragazzi in sella ai loro scooter, capelli al vento e acrobazie su ruota: quasi un’immagine emblematica di una certa Napoli. Le ritrovi anche sfogliando velocemente il nuovo libro di Saviano, uscito qualche mese dopo il tuo, ma il modo di raccontarli sembra molto diverso…
Ti vorrei rispondere in maniera più precisa, ma non ho letto ancora il libro di Saviano. Però immagino sia così, perché Saviano racconta soprattutto della camorra, e lo fa con grande competenza, mentre io racconto di tutti quegli adolescenti che vivono in una zona di frontiera e che non hanno ancora deciso da che parte stare.
La famiglia, il rapporto coi padri o con le madri, sembra essere per questi ragazzi salvezza o dannazione. O forse è, in generale, l’universo dell’affettività contrapposto a quello della prevaricazione, della guerra per possedere cose o manovrare persone a rappresentare un antidoto, una speranza? Su cosa dobbiamo puntare per sottrarre i ragazzi alla criminalità, alla distruzione della loro umanità e innocenza?
Prima di tutto c’è da tener presente che il mondo di oggi si basa molto sull’apparenza, sul denaro e sull’affermazione di sé. Quindi, essendo questo l’esempio, trovo assolutamente normale che i ragazzi perseguano quegli stessi obiettivi con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la sopraffazione, perché di sopraffazione si nutre la società contemporanea. L’affettività è certo un’arma importante (la madre di Genny). Ma poi serve l’etica, servono le regole, la responsabilità, la coerenza ( la madre di Tania).
Ma i ragazzi di cui tu parli le leggono le storie che tu racconti? Hai un riscontro da loro? O scrivi per gli adulti che ne sono responsabili? O per gli altri, quelli che magari li giudicano frettolosamente e ne vedono solo la pericolosità sociale?
La lettura è un bene prezioso di cui non si ha sufficiente coscienza. Andrebbe insegnata, regalata, resa disponibile e necessaria a tutti. Come si sa, invece, in Italia si legge pochissimo. Quando vado nelle scuole, però, sono tanti i ragazzi che mi dicono di aver divorato i miei libri. E molti mi dicono anche che non credevano fosse così bello leggere. Però, se questo miracolo avviene, non dipende certo dai miei libri, ma da quei tanti insegnanti che fanno con amore il proprio lavoro.