Hanno cominciato andando a bottega da Alex Majoli, sono quasi tutti monzesi ed ex studenti ISA. Lavorano in giro per il mondo, raccolgono premi con reportage, libri e mostre. Intervista a Luca Santese del collettivo Cesura
Del collettivo Cesura sento parlare da molti anni. Del loro maestro, Alex Majoli — autore della celeberrima agenzia Magnum — amo da sempre gli scatti di potenza rara. Ho pensato di incontrare Luca Santese, fra i fondatori di questo gruppo di autori giovani, preparati, noti a livello internazionale e che mi piacerebbe vedere confrontarsi in maniera più diretta col processo di evoluzione culturale che la città sta vivendo, ora che Monza si sta ritagliando uno spazio di rilievo come luogo di importanti mostre di fotografia (McCurry, Doisneau, Maier, Cartier Bresson...).
Cos’è Cesura?
Cesura nacque nel 2008 come gruppo di fotografi ventenni che trova rifugio nello studio di Alex Maioli. Per la sua voglia di indipendenza e di controllo totale — non voleva affidarsi a laboratori esterni per post-produzione, stampa, allestimento, cornice… — decise di fare da sé, formando dalla a alla zeta giovani assistenti.
Dove?
A Pianello Val Tidone, un paesino in provincia di Piacenza. Ad un’ora dall’aeroporto ma abbattendo costi di affitto e preservando il rilassamento sonoro e mentale.
Fu lui a selezionarvi?
Più o meno. Alex chiese all’ISA (l’Istituto Statale d’Arte di Monza, oggi Liceo Artistico Nanni Valentini, Ndr) di segnalare uno studente che potesse fargli da assistente e Alessandro Sala — già allora attivo come organizzatore, particolarmente bravo nella produzione — si propose e venne accettato. Poi Ale coinvolse Arianna Arcara, anche lei monzese ed ex dell’ISA. Così partì una catena che portò a tutti noi, a me, a Luca Baioni e gli altri.
Alex Majoli
Provenite tutti dall’ISA?
Praticamente tutti. Tranne Andy Rocchelli cresciuto a Pavia.
La formazione e l’ISA hanno avuto un ruolo importante?
Fondamentale. Io ne faccio le lodi soprattutto per aver avuto la fortuna di incontrare professori come Flavio Pressato e Gianluca Chinnici. L’approccio didattico che metteva insieme la formazione teorica di livello e la pratica è lo stesso che adottiamo tutt’ora in Cesura.
A unirvi sono aspetti poetici, estetici o etici?
Sono aspetti diversi, cambiati nel tempo. All’inizio ci siamo ritrovati tutti con pochi mezzi economici e la volontà di fare i fotografi. Per farlo ad alti livelli nell’abito del reportage e del fotogiornalismo ci sono vari modi: frequentare scuole prestigiose e molto costose in America o in Inghilterra, oppure fare l’assistente di un buon fotografo oppure, infine, quello seguito da noi, in gruppo. Imparando sì il mestiere dal fotografo, ma in uno scambio da bottega rinascimentale — modello a cui facciamo molto riferimento — in cui il sapere viene trasmesso da maestro ad allievi. Un altro aspetto che ci unisce è il desiderio di indipendenza e di fare tutto noi, per abbattere i costi e per avere un rigorosissimo controllo sulla qualità di quello che produciamo. Se dovessi riassumere in tre principi quello che ci unisce sarebbero qualità, integrità e indipendenza.
Luca Santese
L’indipendenza economica come funziona?
Si può fare denaro o direttamente col proprio lavoro scendendo a compromessi commerciali oppure — ed è così per Cesura — facendo altro e reinvestendo poi nelle proprie idee, progetti e libri. Noi siamo un laboratorio di stampa per mostre come quella della Magnum L’Italia e gli italiani a Torino, partecipiamo a bandi, abbiamo una casa editrice indipendente e veniamo invitati a tenere corsi.
Vi occupate solo di reportage?
No, anche se la formazione iniziale è nel fotogiornalismo perché Alex Maioli è fotogiornalista. A me in particolare interessa il potenziale linguistico della fotografia, arte tutto sommato giovane se paragonata alla pittura per esempio. Per cui mi sono spostato dai temi sociali, che continuo a ritenere fondamentali perché si parla di realtà, verso riflessioni più approfondite dal punto di vista filosofico, antropologico e linguistico.
Il tuo percorso va in una direzione più autoriale quindi, quello degli altri?
C’è chi ha spinto più verso il fotogiornalismo come Gabriele Micalizzi che è reporter di guerra (sua la foto da cui è tratto il dettaglio di apertura, Ndr) e chi come Arianna Arcara che fa sì reportage ma con molta attenzione al linguaggio fotografico, con una riflessione sul mezzo oltre che sul fine.
Arianna Arcara
Qual è il supporto più adeguato per i vostri lavori: un display, un magazine, la parete di una mostra o un libro?
Proprio nell’ordine che hai indicato tu. Uno schermo ha una capacità di penetrazione rapida, primo passo per l’approccio al rapporto e alla riflessione sull’immagine. Il magazine ha sì un’ampia diffusione ma l’immagine ha funzione illustrativa di un testo, con equilibri differenti. C’è un conflitto con le parole anche se “pacifico”. La mostra è un luogo in cui l’immagine è al centro e dove c’è grande attenzione anche per la qualità della stampa, della dimensione, del dettaglio. Il libro è forse l’apice di questa piramide perché è una testimonianza del lavoro che rimane. Una sorta di testamento.
Mi parli di qualcuno dei vostri progetti?
ADO, un foto-video documentario nato durante le primavere arabe. Ogni fotografo è andato in un paese diverso per poi mettere tutto insieme per un racconto completo dei luoghi. Utilizzando anche materiale girato dagli stessi protagonisti.
ADO
Per Found photos in Detroit io e Arianna Arcara nel 2009 siamo andati in quella città per testimoniare la situazione dopo la grande crisi, il crollo sconvolgente e lo stato di degrado e povertà altissimo di quella che era stata una delle più grandi realtà produttive americane. Detroit ci ha dato essa stessa un autoritratto, abbiamo trovato fotografie abbandonate in grande quantità. Ci siamo resi conto che quello sarebbe stato un racconto molto più efficace di quello che avremmo potuto fare noi, perché le immagini erano state scattate dagli stessi protagonisti proprio durante la crisi. Quel lavoro ha avuto grande successo.
Cosa significa “successo”?
Found photos in Detroit ha avuto importanti riconoscimenti nell’ambito della fotografia internazionale. Ha venduto tutta la tiratura (1000 copie) e vinto premi. Martin Parr e Gerry Badger lo hanno inserito nel terzo volume di Photobook history della Phaidon, una consacrazione.
Andy Rocchelli
Uno dei vostri, Andy Rocchelli, è stato ucciso a Sloviansk nel 2014.
Andy lavorava fra Russia e Ucraina in quel periodo, aveva scattato fra l’altro una foto diventata molto nota con una famiglia con molti bambini, nascosta in una cantina che ricordava i bunker della seconda guerra mondiale. Stava documentando un gruppo nazista di Mosca e quasi per caso gli fu commissionato un lavoro da una agenzia che trovava marito alle donne russe. Lui propose di scattare le foto in casa invece che in studio. Da lì è nato Russian interiors, un racconto della condizione di quelle donne, dei loro sogni, nei loro spazi. Chi abbia sparato contro l’auto in cui viaggiava con Andrej Mironov (attivista molto noto) e perché sia stato colpito e ucciso ancora oggi non è chiaro. La famiglia sta giustamente insistendo perché l’inchiesta non venga chiusa frettolosamente.
In quelle situazioni il gioco vale la candela?
È una questione estremamente soggettiva. Esistono fotografi che vivono la professione come una missione, convinti di dover essere testimoni del proprio tempo mettono da parte le valutazioni sul rischio. Se lo chiedi a me, dico no. In War is beatiful David Shields analizza estetizzazione estrema e stereotipi di un anno e mezzo di fotografia dal fronte e arriva alla conclusione che rientrano nei caratteri della propaganda. Il fotografo può impegnarsi, fare gli scatti migliori che può e metterli in giro nel modo più indipendente possibile ma combatterà contro un potere che farà un uso delle immagini in senso diverso da quello originario.
Found photos in Detroit - Arianna Arcara e Luca Santese
Cosa pensi della diffusione di immagini cruente come quella di Aylan Alan Kurdi? Ne ho scritto di recente su Vorrei provando a spiegare che — secondo me — dipende dal contesto, che la facilità con cui vengono condivise le banalizza. Ho scritto dell’importanza di porre un limite, non una censura, che permetta di scegliere se vederle o meno.
Quelle immagini puntano al sensazionalismo, non a informare. Hanno un impatto emotivo che temo inizi e finisca lì. Non so in che modo e con quale efficacia stimolino a interessarsi in maniera approfondita del problema e a diventarne parte attiva. Potrà sembrare arrogante dirlo, ma temo che servano più che altro a vendere qualche copia in più. La fotografa avrà voluto testimoniare una cosa orrenda, l’uso che poi viene fatto di quell’immagine però segue altri scopi. Come politicizzare e strumentalizzare per esempio.
Leggevo fra i materiali di Cesura un passaggio che mi ha colpito, secondo cui in senso paradossale questa sarebbe “l’epoca del siamo tutti fotografi”.
Tutti siamo forniti di un mezzo, lo smartphone, che permette di scattare. Il fotografo è invece chi è capace di uno sguardo critico, di riflettere attraverso le immagini sulla realtà.
Mantenete ancora un rapporto con Monza e il suo territorio?
Sì, alcuni di noi ci vivono tutt’ora, la città e il Parco sono stati il nostro playground. Ci piacerebbe confrontarci con la città, per esempio con qualcosa che metta a confronto vecchi e giovani artisti di un territorio che ha prodotto e può produrre grandissima qualità.
È uscito da poco il tuo libro Italy&Italy. Com’è nato?
Stavamo pensando ad un progetto collettivo sull’Italia. Io mi sono rivolto all’area di Rimini, ai suoi aspetti più intimi e notturni. Con Pasquale Bove — uno dei più interessanti e attivi fotografi di cronaca di quella zona — ho fatto qualche uscita, partecipato a retate e interventi della Polizia per risse e cose così. Non ho trovato il sapore che cercavo. Ho invece scoperto l’archivio di Bove. Scatti eccezionali dall’85 al 2000, belli, freschi, iconici su aspetti sia nobili che bassi. Ho analizzato 250.000 stampe selezionandone 300 che testimoniassero l’Italia di quegli anni, quella passata da Rimini e attraverso gli scatti di Pasquale: politica, cinema, crimine, arte. Una italianità che negli ultimi vent’anni sta mutando in maniera inesorabile in termini di globalizzazione. Il modello padre sta lasciando spazio ad altri. Quella tradizione se vogliamo anche becera da un punto di vista, ma nobile, poetica, teatrale, tragica, comica da un altro sembra scomparire, mentre in quelle foto esplodeva.
Questo come curatore, mentre a cosa stai lavorando come fotografo?
Ad uno studio, una ricerca interiore in cui cerco di dare rappresentazione di idee. Sto lavorando sulla tecnologia e la tecnica, su quello che ha dato origine all’arte e che oggi sta caratterizzando sempre più le nostre vite distaccandoci dalla terra, dalla matericità.