Da decenni si sente parlare ciclicamente di “crisi dell’edilizia” e della necessità
di un numero sempre maggiore di nuove case. Ma è proprio così?
Caso Monza: il censimento del 2001
53.529 abitazioni. Di cui 3.721 “non occupate”. Questo diceva, a proposito di case a Monza, il censimento della popolazione e della abitazioni condotto nel 2001 dall’Istat. All’epoca, cioè, risultava sfitto il 7% circa dell’intero patrimonio edilizio presente in città. In termini di vani, erano state censite allora ben 198.286 stanze: di queste, 12.244 (il 6,1%) erano vuote. Ma, nelle 186.042 stanze occupate, vivevano “solo” 120.204. Nei 49.808 alloggi occupati, abitavano infatti 49.371 famiglie.
Come dire che di alloggi e stanze, in termini quantitativi, ce n’erano già abbastanza allora: quel 7% circa di case sfitte presenti sul mercato poneva la città circa due punti percentuali sopra la media dei Comuni della vecchia Provincia di Milano. Eppure la produzione di edilizia residenziale, a Monza, non si è mai fermata. Aumentando la già corposa ‘dotazione’.
E oggi?
Gli ultimi dati forniti dall’Ufficio Statistica del Comune relativi alla popolazione anagrafica di Monza, al 31 luglio 2009 indicavano 121.510 abitanti: restati praticamente stabili da circa 20 anni, dal 2001 hanno registrato un lieve incremento, l’1% in 8 anni. L’aumento si nota invece nelle nuove famiglie, ben 3.420 (+6,9%), che portano il totale a 52.791. Un trend, comunque, inferiore all’1% all’anno, causato in gran parte dall’incremento dei nuclei familiari monocomponente: immigrati, single, separati e divorziati.
Perché allora continuare a far costruire con quelle enormi quantità che sembrerebbe prefigurare la cosiddetta “variante Romani” a un Pgt approvato solo nel novembre del 2007? Cui prodest tutto questo? Tanto più che quelle dimensioni demografiche (si parla di arrivare a una Monza da 160mila abitanti, se non oltre), quasi sicuramente non verranno mai raggiunte. Così ipotizzano anche le più ottimistiche previsioni dei demografi, pur calcolate al 2021.
Nel malaugurato caso tutti quei volumi venissero realizzati, si rischierebbe solo di produrre gravi e irreversibili danni ambientali ai residenti già insediati, circondati già oggi dalle ormai costanti congestioni da traffico e dai relativi inquinamenti indotti (circa 350mila auto, ogni giorno, in movimento in città).
Le enormi edificazioni previste, inoltre, comprometterebbero irrimediabilmente in pratica tutte le residue aree agricole, che costituiscono veri e propri “depuratori dell’aria”, delle acque piovane e di falda, oltre a essere termoregolatrici del clima attraverso la vegetazione e le piantumazioni, rifugio e corridoio della fauna ancora oggi presente in quelle zone. Senza voler parlare degli aspetti paesaggistici in senso stretto e di un giusto rapporto tra parte edificata e inedificata della città, che viene stimato dagli esperti nel 45-50% dell’intero territorio comunale, come limite massimo da non valicare.
È infatti bene ricordare che Monza, a tutt’oggi, è entro quel limite con i suoi 33 kmq di territorio comunale, grazie a 7,5 kmq di parco storico e circa 9 kmq che si trovano nei parchi agricoli di cornice, nella cintura urbana esterna.
L'espansione urbana a Monza nei decenni
Le città e il verde
Giuseppe Campos Venuti, Presidente onorario dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, in un suo intervento di qualche anno fa, in un convegno organizzato a Padova sul tema “Una città per il verde” diceva, tra l’altro:
“Voglio ricordare in modo emblematico… i parametri relativi alla produzione di ossigeno e di acqua evaporata e traspirata dal verde in città… Un ettaro di terreno urbano tenuto a prato, con 150 alberature medie (alberi di 30 centimetri di diametro, indifferentemente a foglia caduca o sempreverdi), assorbe quasi 30 tonnellate annue di anidride carbonica, produce oltre 5 tonnellate annue di ossigeno e traspira - evapora quasi 33 tonnellate annue di acqua. Mentre un ettaro di bosco urbano con 400 alberi, assorbe quasi 69 tonnellate annue di anidride carbonica, produce quasi 9 tonnellate annue di ossigeno e traspira-evapora quasi 59 tonnellate annue di acqua”.
Parchi urbani di cornice e extraurbani a Monza
Ma allora tutti danno i numeri, soprattutto i costruttori?
Certo che quando si parla del fabbisogno di nuove case, soprattutto di quelle a basso costo, per la vendita o per l’affitto, non è una novità che e si forniscano le cifre più disparate, sia a Monza, sia altrove. Basta dare un’occhiata alla stampa: un articolo de “La Repubblica Milano” del 2 ottobre 2008 riportava un dato dell’istituto di ricerca indipendente Scenari Immobiliari secondo il quale nel capoluogo regionale ci sarebbe un fabbisogno di case tra 50 e 80.000 nuovi alloggi.
Nel marzo del 2009, parlando sul Corriere della Sera dei numeri sovrastimati in Veneto, Gian Antonio Stella (l’autore del libro sulla “Casta” politica), concludeva che le case già esistenti sono sufficienti per a rispondere alle esigenze abitative fino al 2022.
infine, un ultimo articolo, sempre del Corriere, scritto però nel lontano 1994 sempre relativo alla “situazione della casa, in Lombardia”, dimostra indirettamente che il problema dei numeri sovrastimati è lo stesso da molti anni. Come sempre, “più case ci sono, più ce ne vorrebbero”
Tanto che già nel lontano 1972 Francesco Indovina, Professore presso la Facoltà di Urbanistica all’Università IUAV di Venezia e autore di numeri saggi e articoli, ne parlava così in un suo libro dal titolo emblematico, “Lo spreco edilizio”:
“Un ulteriore osservazione merita di essere fatta: il finanziamento del settore edilizio passa prevalentemente per il settore bancario (con prestiti a lungo, breve e medio periodo), la rilevante quota che deve essere raccolta fuori dal settore ha costituito lo strumento fondamentale per la costruzione di quello che è definito come il “blocco edilizio”. Questo blocco indica l’insieme delle forze sociali ed amministrative che trovano alimento e sostegno economico e politico reciproco; a questo blocco appartengono sia il settore capitalistico edilizio (industria edilizia, proprietari fondiari, grandi immobiliari, ecc.), sia il settore amministrativo (banche, enti locali, enti pubblici vari), sia la struttura del potere politico elargitrice di “favori”, tutto saldato insieme da questo flusso ininterrotto di risorse, da altri settori a quello edilizio”. (pag. 345)
Che fare?
A nostro parere, sarebbe invece opportuno mettere in campo efficaci politiche fiscali tese a ridurre drasticamente la quota dello sfitto, quali l’aumento dell’Ici sulle seconde e terze case, e oltre; fornire garanzie maggiori a chi affitta (interessante al riguardo il Rapporto Caritas “Case senza abitanti, abitanti senza casa”); dare priorità al recupero delle aree industriali dismesse; evitare in modo assoluto la compromissione delle aree libere, soprattutto se ancora agricole o interstiziali, nella città ormai consolidata; favorire l’aumento della dotazione arborea, sia su aree pubbliche sia nei giardini privati, con nuove piantumazioni e verde di arredo; prevedere una consistente compensazione ecologica preventiva nelle nuove e, qualora assolutamente necessarie, edificazioni.
È comunque improrogabile che alla capienza della città venga dato un limite, sia nel settore residenziale sia negli altri settori (grande distribuzione, terziario e di svago), che, a volte sono anche più invasivi, di maggiore compromissione e congestione territoriale. Come è noto, a una migliore vivibilità si accompagna spesso una maggiore attrattività dei luoghi, così come anche evidenziato in diversi articoli di questa Rivista, tutti relativi ad interviste ad alcuni manager privati e pubblici.
È necessario passare “dalla quantità, alla qualità”: dare un limite, anche e soprattutto alla più becera speculazione edilizia e immobiliare. Tanto più che servono oggi case più economiche, più ecologiche, di minor superficie e volume, per famiglie sempre più piccole. Ma di tutto questo avremo modo di parlare in futuro e in dettaglio. Proprio a partire dalla emblematica situazione del nuovo Pgt per Monza.
Il Pgt di Monza del 2007