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Nel mio precedente articolo dedicato a Mario Cottarelli, ho dichiarato di condividere la sua visione: conciliare una politica basata sulla parità di condizioni di partenza, che richiede solidarietà, con una politica basata sul riconoscimento del merito, che implica competizione.

Il filosofo americano Michael J. Sandel, che abbiamo già  incrociato  qualche anno fa,  mette in questione questa visione (La tirannia del merito, Feltrinelli, 2021).

Le sue obiezioni possono apparire troppo radicali. Nondimeno meritano la massima attenzione, sia perché suffragate da dati di fatto, sia perché l’argomento ha rilevanza fondamentale per la sopravvivenza o il declino della democrazia.

Sandel condivide con gli economisti riformisti la constatazione dell’enorme aumento, negli ultimi decenni, delle disuguaglianze. Ma più che attribuirle alle politiche economiche liberiste, le riconduce a una competizione senza freni per l’acquisizione di posizioni elitarie, in cui il principio del merito è manipolato da chi detiene già ricchezza e potere, diventando uno strumento di successo. E’ significativo questo passaggio del libro:

«I genitori spendono migliaia di dollari in consulenze private per le ammissioni e in corsi di preparazione ai test per aumentare le chances dei propri figli, trasformando gli anni delle scuole superiori in una competizione molto stressante…in una costruzione del curriculum e in una lotta dalla pressione altissima». Naturalmente si tratta di genitori ricchi e influenti. Il risultato è che alle scuole più qualificate, e poi alle posizioni sociali ed economiche più elevate, possono accedere solo gli appartenenti alle classi privilegiate.

Questa competizione, estremamente stressante e alienante per gli stessi “figli di papà”, porta a una frattura insanabile tra le élite consolidate, tendenzialmente oligarchiche, e la massa degli esclusi. Questa frattura genera tracotanza da parte degli appartenenti alle élite, convinti di essere i soli meritevoli delle loro posizioni elevate, e perdita di autostima, risentimento e rabbia da parte degli esclusi. Da una parte, è difficile che gli eletti coltivino sensibilità civica, umiltà, cura del bene comune. Dall’altra, gli esclusi diventano facile preda di agitatori populisti che promettono loro un riscatto, e che costituiscono una grave minaccia per la democrazia.

La divaricazione tra élite e popolo nasce nelle scuole e nell’università, che nelle argomentazioni di Sandel si presentano come un vero e proprio campo di battaglia per emergere e prevalere. Non tanto e non solo per le differenze in termini di conoscenze, ma per il “credenzialismo”, che è molto di più del nostrano “pezzo di carta”: il poter esibire un titolo di studio delle maggiori Università - in USA quelle cosiddette della Ivy League, come Harvard, Princeton, Yale -, costituisce una “credenziale” che dà a chi l’ha ottenuto il diritto d’accesso nella classe dominante. Una sorta di sigillo meritocratico, per non dire d’investitura.

L’accesso agli studi superiori, spacciato per merito, è costruito in diversi modi, dalle donazioni ai college alla corruzione dei selezionatori.

 

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Laureati di Harvard-Cambridge - Foto Justin Knight

 

Tutto ciò porta al blocco dell’ascensore sociale: le élite si riproducono, diventano dinastiche, e per gli appartenenti ai ceti inferiori la possibilità di accedere ai livelli più alti del potere, oltre che della ricchezza, diventa un fatto raro. In tal modo si creano vincitori e perdenti in via definitiva. Il “sogno americano”, secondo cui chiunque, grazie all’impegno personale, può accedere ai livelli più alti della società e della ricchezza, è smentito dai fatti.

Ovunque il titolo universitario condiziona ormai l’accesso alle assemblee legislative: nel Regno Unito, «quasi due terzi del governo Johnson hanno frequentato scuole private, e quasi la metà si è laureata ad Oxbridge», cioè a Oxford o Cambridge. «Con gli anni 2000», dice Sandel, «chi non ha un diploma di laurea nelle assemblee legislative è tanto raro quanto ai tempi dell’aristocrazia e della nobiltà terriera». Anche i partiti di sinistra partecipano a questa trasformazione: non rappresentano più i diseredati, ma le classi colte.

Mentre solo chi ha credenziali universitarie può accedere alle assemblee legislative e alle posizioni sociali ed economiche più alte, gli esclusi vivono in condizioni sempre meno felici. La bassa considerazione sociale che gli viene attribuita è personificata dal personaggio dei fumetti Homer Sympson. Come testimonianza di ciò, Sandel cita anche la speranza di vita, molto più bassa nelle classi medie e inferiori rispetto a quelle elevate, e i tassi dei suicidi, molto più alti.

Anche se Sandel tratta prevalentemente la situazione degli USA, molti aspetti confermano la credibilità della denuncia a livello planetario o almeno nord-occidentale: le votazioni che hanno portato alla Brexit e alla elezione di Trump, i successi dei partiti populisti in Europa, le agitazioni popolari susseguenti al Covid 19, la crescente astensione dal voto, mostrano una molto diffusa e pericolosa disaffezione del popolo verso le élite politiche. Questa deriva alimenta il rischio dell’esplosione di una rabbia diffusa, alimentata probabilmente da poteri oscuri, che può portare a una crisi delle democrazie e a eventi tragici come sommosse e guerre.

 

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 L'assalto al Congresso Usa

 

Quale il rimedio? Secondo Sandel occorre «sconfiggere la tirannia del merito. Che non significa che il merito non dovrebbe avere alcun ruolo nell’assegnazione dei posti di lavoro e dei ruoli sociali… significa mettere in discussione l’idea meritocratica secondo cui chi sta in cima ce l’ha fatta da solo».

Sandel ritiene che si debba agire soprattutto su due fronti: quello dell’istruzione e quello del lavoro.

Per quanto riguarda l’istruzione, propone di «smantellare la macchina selezionatrice», cioè l’uso delle graduatorie basate sul merito. In particolare, per l’accesso alle università, propone che, dopo una selezione a larghe maglie (ad esempio il 50% delle domande), l’ammissione sia basata sull’estrazione a sorte.

Avanza inoltre una proposta che mi sembra particolarmente condivisibile: quella della diffusione della formazione civica a tutti i livelli e corsi di studio, come integrazione della formazione scientifica, specialistica e professionalizzante. Dagli istituti tecnici alle università. Tenendo conto del fatto che le élite non sono più moralmente e socialmente illuminate e meno soggette a ideologie e pregiudizi di quanto lo siano le persone comuni.

Per il lavoro, Sandel sostiene che non basta, anche se è necessario, aumentare il potere d’acquisto delle famiglie e rafforzare la rete di sicurezza sociale. Se si vuole far fronte al risentimento e alla rabbia diffusi nei lavoratori occorre ridare loro il riconoscimento e la stima che la tirannia del merito gli ha fatto perdere. Il riconoscimento richiede un sorta di rivoluzione: si tratta di considerare i lavoratori e, più in generale, le persone non come consumatori, ma come produttori, che contribuiscono con il loro fare al bene comune. Citando un autore tedesco, Axel Honneth, rileva che «i conflitti contemporanei per la distribuzione del reddito e della ricchezza possono essere meglio compresi come conflitti per il riconoscimento e la stima». E osserva acutamente che anche la cultura liberal-socialista, cioè di sinistra, da John M. Keynes alle politiche di welfare “dalla culla alla bara”, ha trattato le persone come consumatori, come oggetti della politica, e non come produttori e soggetti attivi.

 

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Homer Simpson -  Screenshot Alexdevil

 

In conclusione, Sandel si chiede se sia meglio continuare ad essere fedeli a un principio del merito come viene praticato e manipolato, o «ricercare un bene comune che vada oltre il selezionare e il lottare». Occorre inoltre diffondere la consapevolezza che «pur con tutti i nostri sforzi, noi non ci auto-realizziamo da soli e non siamo autosufficienti; ritrovarci in una società che premia i nostri talenti è la nostra fortuna, non è quanto ci è dovuto». A suo parere «l’etica dell’essere padroni di se stessi e del farsi da sé ha sbaragliato l’etica della riconoscenza e dell’umiltà». Si augura pertanto un bagno di umiltà da parte delle classi dirigenti come condizione della democrazia. Un lavacro che però ha il sapore dell’utopia.

Sicuramente ho semplificato eccessivamente le argomentazioni di Sandel, non avendo la sua formazione e preparazione filosofica. Del resto, la vastità di argomentazioni del libro è difficilmente riassumibile in un articolo.

Non vi è alcun dubbio che le disuguaglianze tra la fascia di persone più ricche e istruite e la grande maggioranza della popolazione si siano negli ultimi decenni enormemente allargate. E sicuramente questo divario non è solo economico, ma incide sulle condizioni sociali e politiche delle persone a livello globale.

Tuttavia occorre considerare il fatto che, da una parte, il problema dei rapporti tra élite e popolo è un problema eterno, dall’altra non si può non riconoscere che le condizioni dei meno abbienti, specie nei regimi democratici, sono molto migliorate. Lo stesso autore riconosce che nei college della Ivy League non vige più l’esclusiva WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant), e che le prevenzioni legate al genere, colore, religione e nazionalità sono superate.

Occorre anche tener conto del fatto che Sandel ragiona nell’ottica dei paesi sviluppati, e in particolare degli USA. Già il “sogno americano” è appunto americano: «Il 77% di americani crede ancora che le persone possano avere successo se sono disposte a lavorare sodo». Ma occorrerebbe basare le indagini sulle motivazioni culturali, etiche e sociali diverse che animano i diversi popoli. Non a caso Jeremy Rifkin ha parlato di “sogno europeo” come diverso, più solidale di quello americano. E tener presente che in un’ottica globale, le delocalizzazioni che hanno prodotto tante sofferenze nei paesi sviluppati hanno fatto uscire dalla povertà milioni di persone nei paesi arretrati, generando capacità di sviluppo autonomo prima assenti (si pensi alla Cina e al sud est asiatico, ma anche ad alcuni paesi africani). Del resto, non è questo un obiettivo globale spesso auspicato anche dai sovranisti per contrastare il fenomeno migratorio, con lo slogan “aiutiamoli a casa loro”?

 

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100 anni - Camera dei Deputati

 

Occorre considerare che le motivazioni degli uomini non si riducono a quelle di emergere economicamente e socialmente in competizione con altri. Gli obiettivi degli uomini sono i più diversi, legati a vocazioni e passioni specifiche, a finalità etiche, sociali o tecnologiche, che danno senso a vite soddisfatte di sè. Il riconoscimento dei propri limiti è diffuso e accettato, così come il riconoscimento e addirittura l’immedesimazione nei leader, politici, sociali o culturali che siano. I cittadini vogliono inoltre, di norma, essere governati da persone competenti e particolarmente dotate, anche se spesso confondono il merito con le capacità retoriche e il successo.

I problemi nascono quando il perseguimento delle proprie aspirazioni è impedito da strettezze economiche, dalla impossibilità di allevare adeguatamente i propri figli, dall’impossibilità di curarsi, dall’ mancanza di un’abitazione che sia anche un focolare. E dalla percezione diffusa cel fatto che, mentre si fatica a sopravvivere, vi è chi percepisce redditi e accumula ricchezze spropositate. E’ qui che nasce il senso di esclusione e la rabbia, il desiderio di rivalsa e il sostegno a chi la promette.

Sandel sembra voler abolire la competizione e proporre un mondo caratterizzato solo dalla cooperazione. Ma questo è impossibile e addirittura contraddittorio: la dignità dell’essere umano, che ispira le argomentazioni di Sandel, è fatta anche di competizione, secondo regole condivise.

In sostanza, conviene sempre ricordare la famosa frase attribuita a Winston Churchill, secondo cui la democrazia è il peggior sistema di governo, fatta eccezione per tutti gli altri. E se la sua diffusione mondiale incontra più ostacoli, e anche arretramenti, di quanto pensava lo storico Francis Fukuyama, costituisce pur sempre un faro verso cui tendere.

Tutto ciò non deve però portare a una sottovalutazione dell’allarme lanciato da Sandel: prima che la gente scenda in piazza, basta un voto nell’urna, come avvenuto con la Brexit e con Trump e come potrebbe avvenire in Europa, per mettere a rischio la democrazia.

 

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Manifestazione No-Vax - Foto di  La Repubblica 

 

Sandel pone giustamente alla base del cambiamento i problemi dell’istruzione e del lavoro.

Ma per quanto riguarda l’istruzione, i problemi vanno al di là delle graduatorie sul merito, che saranno sempre uno strumento imperfetto, ma preferibile alla mancanza di criteri di valutazione. Non è vero che “what you measure is what you get”, specialmente se le misurazioni sono manipolate. Ma le misurazioni, anche se imperfette, sono un elemento fondamentale del metodo scientifico.

IL problema maggiore dell’istruzione sta forse nel rapporto quantitativo tra docenti e discenti. Se il veicolo principale dell’apprendimento è il dialogo, il numero limitato dei partecipanti è un vincolo che nessuno strumento delle tecnologie digitali può sostituire. Non a caso il  più basso rapporto quantitativo tra docenti e discenti è uno degli elementi che contraddistinguono le università di alto livello. Ma questo vincolo porta alla questione delle risorse pubbliche da destinare all’istruzione (e alla cultura), sempre scarse. Il che porta a sua volta direttamente alle politiche fiscali e di spesa delle istituzioni pubbliche.

L’insufficienza delle risorse pubbliche, frutto delle politiche fiscali liberiste degli ultimi decenni, si è tradotto anche in una crescente delega dell’istruzione, così come della sanità e di altre funzioni pubbliche, a organizzazioni private. E’ ciò che da noi è stato chiamato ipocritamente la “sussidiarietà orizzontale”. Ma l’esperienza ha dimostrato che l’orizzontalità è fonte di disuguaglianza, perché l’istruzione privata (paradossalmente sostenuta da contributi pubblici) ha un prezzo che solo i più abbienti possono sostenere, mentre quella pubblica, che dovrebbe essere gratuita, è sempre più inadeguata alla massa dei meno abbienti.

Per quanto riguarda il lavoro, Sandel sottolinea la necessità di ridare riconoscimento e dignità ad ogni tipo di lavoro. Ma un problema centrale della rivoluzione digitale è la fine del posto di lavoro a vita nelle grandi strutture produttive. Occorre quindi dare per molto probabile la necessità che, nel corso della vita, molti debbano cambiare attività. Del resto, quando si parla di posto lavoro a vita ci si riferisce solo a un parte dei lavoratori, come i dipendenti pubblici e le imprese del passato. Ma una parte rilevante dei lavoratori, soprattutto in Italia, sono lavoratori autonomi o piccoli imprenditori, da sempre esposti ai rischi del mercato.

Occorre quindi uno spostamento dell’attenzione delle istituzioni e delle organizzazioni sindacali dalla difesa ad ogni costo del preesistente posto di lavoro ai periodi di crisi dovuti al progresso tecnologico e alla globalizzazione. Basti pensare, per gli anni a venire, al passaggio inesorabile e sconvolgente dei mezzi di trasporto dalla trazione a combustione interna a quella elettrica, simile a quello dalla macchina da scrivere al computer di fine novecento e dal cavallo all’automobile dell’inizio del secolo scorso.

Occorrerà non solo provvedere di adeguati paracadute i periodi di transizione dei lavoratori da una attività a un’altra, ma fare in modo che i periodi di disoccupazione siano accompagnati da attività formative e da consulenze per l’avviamento a nuovi impieghi. Questi periodi dovrebbero poter essere vissuti non come momenti di alienazione, ma come mesi o anni sabbatici per cambiamenti di vita. So per esperienza personale che possono portare a una riflessione sulle proprie attività e forse a una riscoperta delle proprie vocazioni.

A questo scopo occorrerà istituire sistemi di formazione permanente e di consulenza non solo per la ricerca di un nuovo lavoro dipendente, ma anche per l’avvio di un lavoro autonomo o di una attività imprenditoriale innovativa. Tutto ciò darebbe sostanza all’auspicio di Sandel di una restituzione ai lavoratori della loro autostima e della loro dignità, anche nei momenti di transizione, sottraendoli a un sistema assistenziale che li tratta come elementi passivi, oggetto di assistenza a carico della società. Salario minimo e minori differenze tra i redditi dei vertici e dei lavoratori meno retribuiti saranno tra gli strumenti per ridare dignità al lavoro.

Ma per realizzare i cambiamenti auspicati nell’istruzione e nel lavoro saranno necessarie ingenti risorse economiche, da produrre ex novo o da sottrarre ad altre funzioni pubbliche.

Ma esiste, nella mente degli elettori e nelle esternazioni degli eletti, una dissociazione che può essere sintetizzata nel vecchio adagio del desiderio di avere la botte piena e la moglie ubriaca: la dissociazione tra le politiche fiscali e le politiche della spesa. L’auspicio generale è di pagare meno tasse, ma nello stesso tempo di avere più servizi pubblici.

 

Riunione Cda Enac

 

Occorre ricomporre questa dissociazione, attraverso una maggiore diffusione della conoscenza dei bilanci pubblici, in modo da farli vivere quasi come una integrazione dei bilanci famigliari, e un maggior dibattito sulle opzioni possibili. Ad esempio sulle scelte tra spese per l’istruzione e spese militari, o tra le spese per l’istruzione pubblica e le entrate provenienti da imposte sulle successioni e sui patrimoni più ingenti.

Ciò richiede che alla gente venga fornita una visione congiunta e trasparente delle risorse necessarie per le strutture e i servizi sociali e della loro acquisizione attraverso le tasse. Occorre dimostrare l’impegno contro l’evasione fiscale, gli sprechi e l’iniquità della distribuzione delle risorse tra le varie destinazioni. In tal modo i cittadini potrebbero accettare di pagare tasse maggiori e meglio distribuite secondo le capacità contributive, in cambio di maggiori stanziamenti per l’istruzione e il lavoro.

Tutto ciò comporterebbe anche un cambiamento rivoluzionario: una concezione del diritto di proprietà privata meno assoluto che nel passato, e più condizionato alla sua funzione sociale.

Gli autori di Vorrei
Giacomo Correale Santacroce
Giacomo Correale Santacroce

Laureato in Economia all’Università Bocconi con specializzazione in Scienze dell’Amministrazione Pubblica all’Università di Bologna, ha una lunga esperienza in materia di programmazione e gestione strategica acquisita come dirigente e come consulente presso imprese e amministrazioni pubbliche. È autore di saggi e articoli pubblicati su riviste e giornali economici. Ora in pensione, dedica la sua attività pubblicistica a uno zibaldone di economia, politica ed estetica.

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